Coreografie della disobbedienza americana

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Sono con­ti­nuate durante il week end le pro­te­ste esplose in molte città d’America in seguito ai ver­detti sugli omi­cidi di Michael Brown e Eric Gar­ner. Ancora essen­zial­mente paci­fi­che a New York, dove il pub­blico mini­stero di Broo­klyn Ken­neth Thomp­son ha annun­ciato venerdì la for­ma­zione di un gran jury che dovrà deci­dere se incri­mi­nare o meno il poli­ziotto che ha ucciso Akrai Gur­ley – un altro afroa­me­ri­cano abbat­tuto senza ragione nelle scale di casa sua, e sep­pel­lito prima del week end. Meno paci­fi­che a Ber­ke­ley e Oakland che, come Fer­gu­son due set­ti­mane fa, hanno visto, per la seconda notte con­se­cu­tiva, vio­lenti scon­tri tra parte dei mani­fe­stanti e le forze dell’ordine.

Men­tre nelle due città della Cali­for­nia set­ten­trio­nale (Oakland è stata a sua volta tea­tro, nel 2009, di un altro inspie­ga­bile omi­ci­dio com­piuto dalla poli­zia ai danni di un afroa­me­ri­cano, Oscar Grant, rivi­si­tato l’anno scorso nel film Fruit­vale) la poli­zia è ricorsa a lacri­mo­geni, man­ga­nelli e ci sono stati dei feriti, le mani­fe­sta­zioni a New York si sono svolte senza grossi con­tra­sti. Le più spet­ta­co­lari ed effi­caci, sotto forma di die-ins, effet­tuati all’interno del grande magaz­zino Macy’s, nell’Apple Store sulla Quinta strada e nell’atrio della Grand Cen­tral Station.

Strut­tu­rati come hap­pe­ning estem­po­ra­nei in vari punti della città, sono gesti di disob­be­dienza civile coreo­gra­fati con atten­zione, che creano disturbo ma non durano abba­stanza a lungo per­ché la poli­zia si senta in dovere di inter­ve­nire con la forza. Una lezione que­sta impa­rata in seguito alla con­ven­tion repub­bli­cana del 2004 durante la quale – sotto indi­ca­zione dell’amministrazione Bloom­berg– gli uomini in blu ave­vano effet­tuato arre­sti di massa, in gran parte “pre­ven­tivi”, molti dei quali ancora oggi oggetto di cause legali.

Meno ostile ai mani­fe­stanti del suo pre­de­ces­sore, ma anche molto attento a non “anta­go­niz­zare” troppo la poli­zia, Bill de Bla­sio è apparso sui talk show nazio­nali nel week end. Inter­ro­gato su cosa pen­sava della deci­sione del gran jury riguardo alla morte di Eric Gar­ner, il sin­daco si è trin­ce­rato die­tro a un ambi­guo «rispetto per la pro­ce­dura». Ma ha con­trat­tac­cato le accuse di Rudolph Giu­liani: se nel giro di pochi giorni inci­denti del genere si veri­fi­cano a New York, Phoe­nix, Cle­ve­land e Fer­gu­son il pro­blema esi­ste, ed è di tutto il paese.

Non ci sono dubbi che le ultime parole di Eric Gar­ner, I can’t breath, non posso respi­rare, siano diven­tate un lamento nazio­nale, e un lamento che oltre ai canti e ai car­telli delle mani­fe­sta­zioni – nel corso del week end — è apparso anche sulle magliette di alcuni gio­ca­tori della NFL e della NBL.

Sono entrati nel discorso nazio­nale, anche la pos­si­bi­lità di isti­tuire tele­ca­mere obbli­ga­to­rie per i poli­ziotti (ma nem­meno un video espli­cito ha aiu­tato a incri­mi­nare gli agenti che hanno ucciso Eric Gar­ner) e la fal­li­bi­lità di una pro­ce­dura giu­di­zia­ria che coin­volge un corpo teo­ri­ca­mente indi­pen­dente come il gran jury, ma che – di fronte alla scelta se incri­mi­nare un poli­ziotto o meno — non pro­duce quasi mai un ver­detto a favore.

Uno dei rari casi in cui la poli­zia è stata per­se­guita cri­mi­nal­mente con suc­cesso si è veri­fi­cato qui a New York, nel 1997, quando il tren­tenne hai­tiano Abner Louima, che stava cer­cando di inter­rom­pere una lite scop­piata di fronte a un night club di Broo­klyn, è stato arre­stato, pic­chiato sel­vag­gia­mente e sodo­miz­zato da alcuni poli­ziotti. In quell’occasione 7.000 per­sone ave­vano mar­ciato sul ponte di Broo­klyn, dirette a City Hall. Uno dei cin­que agenti coin­volti nell’attacco sta sson­tando una sen­tenza di 30 anni, l’altro di 15. Il pub­blico mini­stero inca­ri­cato del caso era Loretta Lynch, che Barack Obama ha appena nomi­nato per sosti­tuire il mini­stro della giu­sti­zia Eric Hol­der. Louima, che è soprav­vis­suto alla bar­ba­rie dei poli­ziotti e adesso vive in Flo­rida, ha dato voce ai suoi pen­sieri su Fer­gu­son e New York, attra­verso la scrit­trice hai­tiana Edwige Dan­ti­cat, nelle pagine del set­ti­ma­nale New Yor­ker: «Come è pos­si­bile che così poco sia cam­biato in tutti que­sti anni? Quello che sta suc­ce­dendo mi ricorda che le nostre vite con­ti­nuano a non valere nulla».

Intanto, non ci sono segni che l’indignazione pro­vo­cata nell’intero paese dai casi Brown e Gar­ner possa fer­marsi. È pre­vi­sta per sabato 13 una grande mar­cia in parec­chie città. Ma il cen­tro nevral­gico sarà a Washing­ton, dove anche ieri mat­tina, gruppi di mani­fe­stanti pro­te­sta­vano di fronte alla sede del Con­gresso. Eventi di disob­be­dienza civile — secondo il modello sparso, non strut­tu­rato ver­ti­cal­mente e poli­fo­nico di Occupy -, focus group che pren­dono di mira pra­ti­che pre­cise della poli­zia come quella delle bro­ken win­dows, oppor­tu­nità di adde­stra­mento ai die ins e affini sono pre­vi­sti ovunque.



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