Fenix, la coop che ha sconfitto big pharma

Loading

 

Non è dif­fi­cile imma­gi­nare con quale forza il mondo possa cascarti addosso il giorno in cui l’impresa per cui lavori, una mul­ti­na­zio­nale che fat­tura trenta milioni all’anno con un solo far­maco, decide di lasciarti per strada senza un appa­rente valido motivo. O, ancora peg­gio, se ti arriva a casa una let­tera che una spie­ga­zione la con­tiene, però tu sai benis­simo che la «soste­ni­bi­lità eco­no­mica» non verrà a man­care per­ché il medi­ci­nale il que­stione ha il bre­vetto in sca­denza. Da mana­ger esperto quale sei, pro­fondo cono­sci­tore delle logi­che del mer­cato e dell’impresa, sai benis­simo che l’inevitabile con­cor­renza dei gene­rici spin­gerà a rive­dere il prezzo verso il basso e, per l’azienda in cui lavori, que­sto si tra­durrà in una mera dimi­nu­zione dei pro­fitti attesi e mai in una bancarotta.

Il giorno in cui Gianni e Daniele, amici da una vita prima ancora che col­le­ghi, lo hanno avvi­sato della let­tera che annun­ciava la chiu­sura delle atti­vità alla fine di luglio, Sal­va­tore Man­fredi sapeva bene che un giorno o l’altro sarebbe acca­duto. Ne era così con­sa­pe­vole che un anno prima, quando Procter&Gamble aveva deciso di cedere tutti gli asset euro­pei e gli sta­bi­li­menti in Europa a War­ner Chil­cott, lui aveva deciso che era il momento di cam­biare aria. Se n’era andato a lavo­rare per un’altra mul­ti­na­zio­nale e infine aveva deciso di met­tersi in pro­prio, aprendo una pic­cola società di mar­ke­ting «che fun­zio­nava bene», sem­pre nel campo della comu­ni­ca­zione far­ma­ceu­tica. Que­sto gli aveva rispar­miato l’umiliazione di rice­vere un aset­tico, imper­so­nale ben­ser­vito dopo tanti anni di ono­rata mili­tanza aziendale.

Come rea­gire? I diri­genti e infor­ma­tori scien­ti­fici per l’Italia della War­ner Chil­cott avreb­bero potuto bloc­care il traf­fico della via Lau­ren­tina come i dipen­denti della Sigma Tau ave­vano fatto un anno fa sulla Pon­tina, pre­si­diare per mesi la loro sede, un bidone ormai svuo­tato, augu­ran­dosi che prima o poi qual­cuno sarebbe tor­nato indie­tro e li avrebbe ascol­tati. Sareb­bero potuti andare agli alle­na­menti della Roma per chie­dere a capi­tan Totti di inter­ce­dere per loro, come pure altri prima di loro ave­vano fatto. Avreb­bero potuto per­sino per­met­tersi, come fecero un po’ di anni fa i licen­ziandi della Goo­dyear, una tra­svo­lata ocea­nica per pro­vare a guar­dare in fac­cia l’amministratore dele­gato che aveva giu­di­cato che i pro­fitti attesi non giu­sti­fi­ca­vano più la pro­du­zione e con un tratto di cur­sore su un piano indu­striale for­mato excel aveva can­cel­lato qual­che cen­ti­naio di vite lavorative.

Nulla di tutto ciò. Gianni e Daniele, vit­time col­la­te­rali delle logi­che del capi­tale finan­zia­rio, chia­ma­rono appunto Sal­va­tore Man­fredi, l’ex respon­sa­bile delle ven­dite che aveva assunto gran parte di loro e li aveva lasciati all’arrivo di War­ner Chil­cott. «Avevo intuito che non c’era più alcun inte­resse per la pro­du­zione e che non sarebbe durata molto», dice oggi quest’ultimo con aria rilas­sata e cami­cia bianca new socia­list style nel suo uffi­cio della Fenix Pharma, prima e unica coo­pe­ra­tiva far­ma­ceu­tica d’Italia, feli­ce­mente avviata verso il suo quarto anno di atti­vità. Quel giorno, alla vigi­lia dell’estate del 2011, Sal­va­tore Man­fredi, cala­brese di Zaga­rise, minu­scolo paese tra i boschi della Sila catan­za­rese, era venuto a sapere da Gianni e Daniele della let­tera in cui si annun­ciava la sospen­sione delle atti­vità per la fine di luglio e un ago­sto di vacanza for­zata, in vista della cassa inte­gra­zione e della mobi­lità. I due amici gli ave­vano comu­ni­cato che non ave­vano alcuna inten­zione di arren­dersi. Deci­sero così di rilanciare.

Ancora oggi i tre rie­vo­cano quelle prime riu­nioni infor­mali in un bar della Mon­ta­gnola, peri­fe­ria sud della capi­tale da dove si dirama il secondo polo far­ma­ceu­tico ita­liano dopo quello brian­zolo. «Avremmo potuto facil­mente tro­vare lavoro altrove, anche ben retri­buito, era­vamo mana­ger e infor­ma­tori far­ma­ceu­tici e non avremmo avuto par­ti­co­lari pro­blemi, ma vole­vamo fare qual­cosa di diverso. Non ci andava più di lavo­rare per aziende dove c’è uno in una stanza a New York che decide la tua vita», spie­gano. Con loro c’erano anche Daniela e Deme­trio, e saranno loro cin­que il nucleo pen­sante della nuova impresa che, tra l’estate e l’autunno del 2011, comin­ciò len­ta­mente a pren­dere forma.

«Dopo ven­ti­cin­que anni tra­scorsi a lavo­rare per un colosso, avevo voglia di fare altro», dice Daniele, che con­clude con una bat­tuta: «Le mul­ti­na­zio­nali? Se le cono­sci, le eviti». Sal­va­tore Man­fredi ha fatto di più. «La spinta emo­zio­nale è stata for­tis­sima. Ben sapendo che met­tevo a rischio la fami­glia e un mutuo da pagare, non ho avuto dubbi e, seguendo il mio istinto, mi sono rimesso insieme ai miei vec­chi amici e col­le­ghi».
Comin­cia­rono a vedersi al bar, come pen­sio­nati o sfac­cen­dati qual­siasi. Ancora oggi rie­vo­cano quelle riu­nioni infor­mali con un piz­zico di nostal­gia, per tenere a mente le radici fon­da­tive della nuova impresa («su tutto la cen­tra­lità del lavoro e delle per­sone, quella che man­cava nelle aziende nelle quali siamo stati impie­gati»). Fu lì, nell’autunno da cas­sin­te­grati del 2011, che par­to­ri­rono l’idea di ripar­tire, come il Mas­simo Troisi di Rico­min­cio da tre («tre cose me so’ riu­scite ind’a vita, pec­ché aggià per­dere pure che­ste?! Aggià rico­min­ciare da zero?!») «da dove ave­vamo cono­scenze e capa­cità: la pro­du­zione di far­maci con­tro l’osteoporosi». In quei mesi di disoc­cu­pa­zione e spe­ranza, costrui­rono un piano indu­striale, chie­sero ai loro col­le­ghi se erano dispo­ni­bili a ten­tare l’impresa insieme a loro, si pre­sen­ta­rono ad alcune ban­che per avere pre­stiti e mutui, nego­zia­rono licenze e brevetti.

«Abbiamo scelto la forma coo­pe­ra­tiva per­ché ci pia­ceva uscire dalle logi­che nelle quali ave­vamo lavo­rato per anni, dove il lavoro è solo un fat­tore della pro­du­zione che si può can­cel­lare quando i pro­fitti attesi non sono quelli spe­rati, senza tenere in con­si­de­ra­zione i drammi per­so­nali e delle fami­glie. Non vole­vamo più sen­tirci un numero da pren­dere a calci in culo quando non servi più», spie­gano oggi. Non andava loro giù per niente la logica spie­tata del busi­ness prima di tutto della quale erano rima­sti vittime.

La sto­ria di War­ner Chil­cott è una delle tante del capi­ta­li­smo finan­zia­rio di que­sto ini­zio mil­len­nio. «Pos­si­bile che hanno com­prato un’azienda senza sapere che il pro­dotto più impor­tante e red­di­ti­zio sarebbe sca­duto di lì a poco?», si chiede ancora oggi Sal­va­tore Man­fredi, con il quale rico­strui­sco la sto­ria. È il 2009. Di lì a un anno e mezzo il bre­vetto del far­maco sca­drà e verrà meno il mono­po­lio, ma il fatto che si tratti di un medi­ci­nale per malati cro­nici e anziani, dun­que abi­tu­di­nari, e allo stesso tempo molto pre­scritto dai medici, lo pone in una posi­zione di van­tag­gio rispetto ai con­cor­renti. Que­sto gli acqui­renti lo sanno, si fanno finan­ziare dalle ban­che un piano di rilan­cio in tutta Europa per tre milioni e set­te­cen­to­mila euro, ma quando sono rien­trati dall’investimento e i mana­ger si sono divisi una discreta torta di stock options, deci­dono di chiu­dere e ven­dere la licenza del far­maco, senza curarsi di lasciare per strada 550 per­sone. Man­fredi, dall’alto della sua espe­rienza e cono­scenza dei fatti, è sicuro che si sia trat­tato di un’«operazione pura­mente finan­zia­ria», alla Woody Allen di Prendi i soldi e scappa.

Lui e gli altri pio­nieri di Fenix Pharma, la prima coo­pe­ra­tiva in un set­tore domi­nato dalle mul­ti­na­zio­nali, pur senza capi­tali da inve­stire hanno pro­vato a gio­care sullo stesso campo dei mana­ger che li ave­vano silu­rati. È stata que­sta la loro forza. Non hanno occu­pato la sede, non hanno pic­chet­tato gli ingressi, nep­pure si sono fatti vedere davanti a un mini­stero o in una piazza calda dello scon­tento ita­liano. Non si sono messi sul mer­cato offren­dosi alla migliore oppor­tu­nità che fosse capi­tata loro.

Hanno scelto di rico­struirsi il lavoro, uti­liz­zando il back­ground scien­ti­fico e il patri­mo­nio di rela­zioni che si erano costruiti in vent’anni e passa di espe­rienza. «Sape­vamo di saper fare un pro­dotto di qua­lità e con­fi­da­vamo nel rap­porto con­so­li­dato con i medici di base, instau­rato in tanti anni di lavoro», spiegano.

Hanno inve­stito 10 mila euro a testa delle loro liqui­da­zioni, i cin­que della Mon­ta­gnola ne hanno messi 25 mila per­ché c’era biso­gno di pagare la prima tran­che della licenza per la com­mer­cia­liz­za­zione del far­maco anti-osteoporosi, costata 240 mila euro, ser­vi­vano 90 mila euro per le prime scorte (50 mila pezzi) e «quando non sei nes­suno, prima devi pagare e poi ti con­se­gnano la merce». Ma l’impegno eco­no­mico non sarebbe bastato se il loro piano non fosse pia­ciuto a Coo­p­fond, un fondo creato dalla Lega delle coo­pe­ra­tive (e ali­men­tato con il tre per cento degli utili di tutte le coop iscritte) per soste­nere le aziende recu­pe­rate. Coo­p­fond è entrata nel capi­tale sociale di Fenix Pharma con 300 mila euro, men­tre un altro fondo per le imprese recu­pe­rate, Cfi (Coo­pe­ra­zione Finanza Impresa, par­te­ci­pato dal Mini­stero dello Svi­luppo Eco­no­mico), che uti­lizza i fondi della legge Mar­cora dell’85 (la prima nor­ma­tiva appro­vata in Europa per age­vo­lare il recu­pero delle fab­bri­che), è a sua volta entrato nel capi­tale sociale con 200 mila euro e ne ha for­niti altri 100 mila in obbli­ga­zioni con­ver­ti­bili. «Gra­zie alle garan­zie di Lega­coop e ad altre che abbiamo for­nito indi­vi­dual­mente abbiamo poi avuto un mutuo da Banca Intesa e un altro da Coper­fidi», spiega Man­fredi. Inol­tre, ogni socio ha fatto un pre­stito sociale da 10 o 15 mila euro, vin­co­lan­doli per due anni.

Con que­sto teso­retto il vascello della Fenix Pharma ha potuto final­mente pren­dere il largo. Prima con il far­maco con­tro l’osteoporosi, che ancora oggi garan­ti­sce il 50 per cento del fat­tu­rato, dopo qual­che mese aggiun­gendo quat­tro inte­gra­tori ali­men­tari. Il primo anno si è chiuso con un pas­sivo di 500 mila euro, «nor­male, per un’azienda di que­sto genere che ha appena avviato l’attività», ma già dall’anno suc­ces­sivo il fat­tu­rato è cre­sciuto da 2,5 a 4,6 milioni e il bilan­cio si è chiuso in lieve attivo. La pro­du­zione si è espansa e loro, ini­zial­mente con­trat­tua­liz­zati a 1.200 euro al mese, per un anno, «per­ché non pote­vamo per­met­terci altro», hanno potuto appli­care il con­tratto dei chi­mici part-time, con un bonus legato alle ven­dite («in que­sto modo siamo tutti coin­volti a svi­lup­pare l’azienda»), e comin­ciare a dif­fe­ren­ziare i salari. Per quest’anno il fat­tu­rato pre­vi­sto si aggi­rerà intorno ai 5,8 milioni e l’utile attorno ai 40 mila euro, e per l’anno pros­simo, «gra­zie a un piano di uscita dalla dipen­denza da un far­maco solo» attra­verso lo svi­luppo di altri pro­dotti per malat­tie osteoar­ti­co­lari e a un sito di e-commerce per gli inte­gra­tori, pre­ve­dono un fat­tu­rato di dieci milioni. Mica male per un nano tra i giganti di big pharma, in un Paese attor­ci­gliato in una reces­sione ormai cronica.

E i lavo­ra­tori? Dei qua­ranta soci ini­ziali, tre sono usciti ma ne sono entrati altri sette, per cui oggi a Fenix Pharma lavo­rano 44 per­sone, che con i col­la­bo­ra­tori a vario titolo sal­gono a una set­tan­tina di per­sone. Soprat­tutto, ci ten­gono a dire, «abbiamo cer­cato di posi­zio­narci come un’azienda diversa dalle altre. «Cre­diamo che la nostra diver­sità sia impor­tante, abbiamo un’identità par­ti­co­lare e vogliamo mantenerla».

Pure la pro­du­zione è con­trol­lata: «Non abbiamo voluto andare a pro­durre in Cina o comun­que sui mer­cati orien­tali per spen­dere di meno. Non vogliamo far­maci di scarsa qua­lità, per que­sto pre­fe­riamo che si pro­duca in Europa, anche se ci costano il 30 per cento in più», spiega Sal­va­tore Manfredi.

«Per me che vengo da una mul­ti­na­zio­nale, è una grande sod­di­sfa­zione aver messo in piedi una coo­pe­ra­tiva che dà lavoro a 70 per­sone», dice Gianni. Pas­sata la fase pio­nie­ri­stica delle riu­nioni al bar e quella più dura degli inizi, ospiti in una stanza di un’altra coo­pe­ra­tiva di tutt’altro genere, ora l’obiettivo è quello di sta­bi­liz­zare tutti. Solo allora il vascello cor­saro di Fenix Pharma potrà dire di aver dimo­strato di saper non solo rico­struire il lavoro, ma di poter navi­gare in sicu­rezza tra gli squali di Big Pharma.



Related Articles

Politiche economiche. Finanziaria in panne

Loading

Un inervento del Responsabile economia della Cgil

Killer col piccone, le vittime sono due muore anche il ragazzo dei giornali

Loading

 Milano, molotov davanti al centro per i rifugiati. Gelmini: serve l’esercito  

Cop. L’aria che tira

Loading

Uscire dall’era dei fossili, come si è usciti dall’era della pietra

No comments

Write a comment
No Comments Yet! You can be first to comment this post!

Write a Comment