Due supercommissari al Mose per finire l’opera (senza tangenti)
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Tutti a casa. Sciò. Sgombrare. Trentadue anni e tanti scandali dopo la nascita, il Consorzio Venezia Nuova è stato commissariato. Troppo rischioso andare avanti coi vertici attuali. Per chiudere il tormentone del Mose arrivano due commissari. Era destino: la svolta casca in un giorno di acqua alta.
Codice arancione, stamattina, nella città serenissima. Previsto un metro e 10, almeno, di acqua alta. Piazza San Marco, per capirci, va sotto. Un tempo, spiegò anni fa un dossier di 23 volumi dello stesso Consorzio teso a dimostrare la propria indispensabilità, «piazza San Marco veniva allagata 7 volte l’anno, oggi mediamente una quarantina». E prevedeva: avanti così, andrà sotto 360 volte l’anno.
Proprio perché non succeda, decisero di tentare con le paratie mobili. Scelta giusta? Sbagliata? Risse infinite. Ma certo, come hanno scritto in «Corruzione a norma di legge» Giorgio Barbieri e Francesco Giavazzi, chi si chiede oggi se la «scelta tecnologica fatta quarant’anni fa sia tuttora idonea, soprattutto alla luce dell’analisi costi benefici» si sente rispondere che «è troppo tardi, ma è una domanda che, in quarant’anni, mai è stato consentito porre, con la scusa che “ormai i lavori sono quasi finiti”».
E proprio perché la telenovela abbia davvero fine, dopo uno spaventoso aumento dei costi (saliti a sei miliardi), patti immondi, polemiche, mazzette e rinvii, l’autorità anticorruzione guidata da Raffaele Cantone aveva deciso un taglio netto. Giuseppe Pecoraro, il prefetto di Roma competente perché lì ha sede il ministero delle Infrastrutture che commissionò l’opera, ha firmato.
Da oggi, il Consorzio è in mano a due commissari. Uno è Luigi Magistro, vicedirettore dell’agenzia delle Dogane e dei Monopoli e già indicato per Equitalia e l’Agenzia delle Entrate prima che Renzi scegliesse Rossella Orlandi. L’altro, per le questioni più specificamente infrastrutturali (e forse si saprà infine quanto legittime siano le perplessità dei contestatori: moltissimi) è Francesco Ossola, docente di Ingegneria strutturale e geotecnica al Politecnico di Torino e tra i progettisti dello Juventus stadium. Tutti e due hanno giurato di non avere conflitti di interessi. Dopo quanto è successo, il minimo del minimo.
Il decreto del prefetto Pecoraro raccoglie e rilancia le motivazioni con cui Cantone tre settimane fa aveva promosso, in base alla legge del 24 giugno 2014 varata dopo gli scandali Expo e Mose, la «gestione straordinaria e temporanea» del Consorzio veneziano. Il presidente dell’Autorità Nazionale Anticorruzione, nella sua proposta, era stato durissimo.
E dopo aver ricordato che l’obiettivo è «evitare che le doverose indagini della magistratura penale su fatti illeciti connessi alla gestione degli appalti o delle concessioni di lavori pubblici possano impedire o ritardare la conclusione di opere pubbliche» strategiche ma anche di «impedire che l’esigenza di esecuzione dell’appalto o della concessione si possa tradurre nell’attribuzione di un (indiretto) vantaggio all’autore dell’illecito», aveva ricostruito la storia del Mose segnalando molti passaggi inaccettabili.
A partire proprio dalla concessione di tutti i lavori «in forma unitaria a trattativa privata, anche in deroga alle disposizioni vigenti» a quel Consorzio Venezia Nuova costituito da varie imprese che, senza l’impiccio di concorrenti e di controlli, dati i rapporti incestuosi con il Magistrato alle Acque, avrebbero messo in piedi un «sistema corruttivo diffuso, ramificato e consolidato».
«Il legame tra corrotti e corruttori», ricordava Cantone, «si è rivelato talmente profondo da non rendere sempre possibile l’individuazione del singolo atto contrario ai doveri d’ufficio oggetto dell’attività corruttiva. Infatti, come si legge nell’ordinanza, la ricostruzione complessiva della vicenda ha evidenziato un sistema in cui funzionari e politici erano da tempo a “libro paga” di Giuseppe Mazzacurati, ex Presidente del Consorzio Venezia Nuova e di Piergiorgio Baita, ex Presidente dell’Impresa Mantovani, società consorziata, al punto da chiedere la consegna di somme a prescindere dai singoli atti compiuti nel corso dell’espletamento dei loro uffici e da integrare in un’unica società corrotti e corruttori».
Per intenderci, come riconobbe Roberto Pravatà, per vent’anni vicepresidente, «circa l’80% degli atti formalmente redatti dal Magistrato alle Acque venivano materialmente prodotti da personale del Consorzio».
Ma adesso, non è cambiato tutto? Non sono cambiati, dopo gli arresti, i vertici? Sì, rispondono Cantone e Pecoraro, ma «la nomina dell’ingegner Hermes Redi a Direttore generale, del dottor Mauro Fabris a Presidente e il rinnovo del Cda» non hanno fatto «venir meno i rischi di ulteriori condizionamenti illeciti nell’esecuzione della concessione».
«Risulta, infatti, pacifico che tali misure di sostituzione della compagine sociale non possono rappresentare un’effettiva novità sul piano della governance. Resta, infatti, invariato il quadro societario, a cui partecipano (ancora oggi) tutte le società già coinvolte nelle indagini giudiziarie ed i cui vertici sono stati raggiunti da ordinanze cautelari».
La stessa nomina a Presidente di Fabris, già deputato e sottosegretario postdemocristiano, «non appare orientata ad esprimere una chiara volontà di rottura rispetto al passato». Lo dicono intercettazioni dove Fabris discuteva con Mazzacurati mostrando quanto «si interessasse personalmente delle vicende del Consorzio». Soprattutto di qualche nomina.
A farla corta, secondo Cantone, risulta «chiara la necessità» di «misure preordinate a salvaguardare gli interessi pubblici coinvolti e a garantire che la concessione venga eseguita al riparo da ulteriori condizionamenti criminali e a escludere che il Consorzio possa trarne ulteriori profitti illeciti». E dunque l’urgenza di un «commissariamento coattivo» e della «sospensione dei poteri di disposizione e gestione degli organi di amministrazione del Consorzio».
Il prefetto Pecoraro ha firmato ieri. Si apre una stagione nuova? C’è da sperarlo. Anche perché, a proposito della delicatezza di Venezia, aveva ragione il Magistrato alle acque Cristoforo Sabbadino che nel cinquecento diceva che non tutte le colpe dei disastri possono essere attribuite alla natura: «Tre condition de homeni ruinano la Laguna: li Signori, li Inzegneri e li Particulari», cioè i proprietari. E dimenticava i ladri…
Proprio perché non succeda, decisero di tentare con le paratie mobili. Scelta giusta? Sbagliata? Risse infinite. Ma certo, come hanno scritto in «Corruzione a norma di legge» Giorgio Barbieri e Francesco Giavazzi, chi si chiede oggi se la «scelta tecnologica fatta quarant’anni fa sia tuttora idonea, soprattutto alla luce dell’analisi costi benefici» si sente rispondere che «è troppo tardi, ma è una domanda che, in quarant’anni, mai è stato consentito porre, con la scusa che “ormai i lavori sono quasi finiti”».
E proprio perché la telenovela abbia davvero fine, dopo uno spaventoso aumento dei costi (saliti a sei miliardi), patti immondi, polemiche, mazzette e rinvii, l’autorità anticorruzione guidata da Raffaele Cantone aveva deciso un taglio netto. Giuseppe Pecoraro, il prefetto di Roma competente perché lì ha sede il ministero delle Infrastrutture che commissionò l’opera, ha firmato.
Da oggi, il Consorzio è in mano a due commissari. Uno è Luigi Magistro, vicedirettore dell’agenzia delle Dogane e dei Monopoli e già indicato per Equitalia e l’Agenzia delle Entrate prima che Renzi scegliesse Rossella Orlandi. L’altro, per le questioni più specificamente infrastrutturali (e forse si saprà infine quanto legittime siano le perplessità dei contestatori: moltissimi) è Francesco Ossola, docente di Ingegneria strutturale e geotecnica al Politecnico di Torino e tra i progettisti dello Juventus stadium. Tutti e due hanno giurato di non avere conflitti di interessi. Dopo quanto è successo, il minimo del minimo.
Il decreto del prefetto Pecoraro raccoglie e rilancia le motivazioni con cui Cantone tre settimane fa aveva promosso, in base alla legge del 24 giugno 2014 varata dopo gli scandali Expo e Mose, la «gestione straordinaria e temporanea» del Consorzio veneziano. Il presidente dell’Autorità Nazionale Anticorruzione, nella sua proposta, era stato durissimo.
E dopo aver ricordato che l’obiettivo è «evitare che le doverose indagini della magistratura penale su fatti illeciti connessi alla gestione degli appalti o delle concessioni di lavori pubblici possano impedire o ritardare la conclusione di opere pubbliche» strategiche ma anche di «impedire che l’esigenza di esecuzione dell’appalto o della concessione si possa tradurre nell’attribuzione di un (indiretto) vantaggio all’autore dell’illecito», aveva ricostruito la storia del Mose segnalando molti passaggi inaccettabili.
A partire proprio dalla concessione di tutti i lavori «in forma unitaria a trattativa privata, anche in deroga alle disposizioni vigenti» a quel Consorzio Venezia Nuova costituito da varie imprese che, senza l’impiccio di concorrenti e di controlli, dati i rapporti incestuosi con il Magistrato alle Acque, avrebbero messo in piedi un «sistema corruttivo diffuso, ramificato e consolidato».
«Il legame tra corrotti e corruttori», ricordava Cantone, «si è rivelato talmente profondo da non rendere sempre possibile l’individuazione del singolo atto contrario ai doveri d’ufficio oggetto dell’attività corruttiva. Infatti, come si legge nell’ordinanza, la ricostruzione complessiva della vicenda ha evidenziato un sistema in cui funzionari e politici erano da tempo a “libro paga” di Giuseppe Mazzacurati, ex Presidente del Consorzio Venezia Nuova e di Piergiorgio Baita, ex Presidente dell’Impresa Mantovani, società consorziata, al punto da chiedere la consegna di somme a prescindere dai singoli atti compiuti nel corso dell’espletamento dei loro uffici e da integrare in un’unica società corrotti e corruttori».
Per intenderci, come riconobbe Roberto Pravatà, per vent’anni vicepresidente, «circa l’80% degli atti formalmente redatti dal Magistrato alle Acque venivano materialmente prodotti da personale del Consorzio».
Ma adesso, non è cambiato tutto? Non sono cambiati, dopo gli arresti, i vertici? Sì, rispondono Cantone e Pecoraro, ma «la nomina dell’ingegner Hermes Redi a Direttore generale, del dottor Mauro Fabris a Presidente e il rinnovo del Cda» non hanno fatto «venir meno i rischi di ulteriori condizionamenti illeciti nell’esecuzione della concessione».
«Risulta, infatti, pacifico che tali misure di sostituzione della compagine sociale non possono rappresentare un’effettiva novità sul piano della governance. Resta, infatti, invariato il quadro societario, a cui partecipano (ancora oggi) tutte le società già coinvolte nelle indagini giudiziarie ed i cui vertici sono stati raggiunti da ordinanze cautelari».
La stessa nomina a Presidente di Fabris, già deputato e sottosegretario postdemocristiano, «non appare orientata ad esprimere una chiara volontà di rottura rispetto al passato». Lo dicono intercettazioni dove Fabris discuteva con Mazzacurati mostrando quanto «si interessasse personalmente delle vicende del Consorzio». Soprattutto di qualche nomina.
A farla corta, secondo Cantone, risulta «chiara la necessità» di «misure preordinate a salvaguardare gli interessi pubblici coinvolti e a garantire che la concessione venga eseguita al riparo da ulteriori condizionamenti criminali e a escludere che il Consorzio possa trarne ulteriori profitti illeciti». E dunque l’urgenza di un «commissariamento coattivo» e della «sospensione dei poteri di disposizione e gestione degli organi di amministrazione del Consorzio».
Il prefetto Pecoraro ha firmato ieri. Si apre una stagione nuova? C’è da sperarlo. Anche perché, a proposito della delicatezza di Venezia, aveva ragione il Magistrato alle acque Cristoforo Sabbadino che nel cinquecento diceva che non tutte le colpe dei disastri possono essere attribuite alla natura: «Tre condition de homeni ruinano la Laguna: li Signori, li Inzegneri e li Particulari», cioè i proprietari. E dimenticava i ladri…
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