L’invito di Napolitano a Renzi: cancellare il sospetto di voto anticipato
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La fretta eccessiva, come la paura immotivata, può essere una cattiva consigliera. Per le riforme, visto che da queste si fanno dipendere le sorti della legislatura, meglio restare con i piedi per terra e far defibrillare lo scenario politico. Certo, è bene andare avanti velocemente, ma senza prove muscolari. Piuttosto, mantenendo l’impegno a riesaminare le posizioni più divisive e disponendosi magari a qualche nuova mediazione. Con chi sta nella maggioranza, in particolare i dissidenti del Pd, ma anche con chi ne è fuori, oltre che con le diverse forze sociali e culturali.
È servita un’ora, a Giorgio Napolitano, per arginare l’allarme del premier che le alleanze su cui si regge il governo reggano sempre meno, dopo lo strappo dei trenta parlamentari democratici sul Jobs act e dopo le nuove tensioni interne a Forza Italia. Sessanta minuti di colloquio per mettere un freno a certi umori che (stando all’insistente vulgata di Montecitorio, comunque carica di suggestioni) potrebbero spingere l’inquilino di Palazzo Chigi a giocare d’anticipo su chi lo sta logorando, a rovesciare il tavolo e a scaraventare il Paese alle urne il più presto possibile. Ossia nella prossima primavera.
No, ha consigliato il padrone di casa, offrendogli una sponda e suggerendo una mediazione. Meglio garantire la stabilità assicurando che le elezioni saranno convocate solo alla loro scadenza fisiologica e che intanto nessuno sarà escluso dal cantiere d’ingegneria costituzionale. Meglio togliere ai partiti il sospetto che l’ansia di varare l’Italicum nasconda in realtà la smania del voto. E tanto meglio fare tutto questo mentre, forse già entro la fine dell’anno, potrebbe aprirsi la partita per la successione del capo dello Stato.
Ecco il senso con cui una nota ufficiosa diramata ieri dall’ufficio stampa del Quirinale permette di inquadrare l’ultimo incontro tra il presidente della Repubblica e il capo del governo, accompagnato dal ministro Maria Elena Boschi. Un faccia a faccia che segue quello di martedì con Anna Finocchiaro, relatrice del testo di modifica al sistema elettorale. Nel dubbio su chi davvero abbia inteso rassicurare chi (per rassicurare gli italiani), i due interlocutori si sono conc entrati «sull’iter parlamentare» dell’Italicum e della riforma — costituzionale, questa — del bicameralismo paritario, già «incardinati per la seconda lettura» delle Assemblee. E le «preoccupazioni delle forze politiche» segnalate dal Colle come comprensibili nell’attuale delicatissima fase, riguardano appunto le interpretazioni che stanno mettendo in «rapporto» questi due provvedimenti. Nei partiti, infatti, si dà quasi per scontato che, se Renzi insistesse ancora per imprimere un’accelerazione sul primo versante e invece rallentasse deliberatamente l’impegno sul secondo, ciò tradirebbe appunto una gran voglia di diroccare la legislatura e scattare in avanti andando alla conta popolare.
Ora, poiché la logica che ha sempre ispirato Napolitano è quella di spingere i partiti alla «più ampia condivisione» in ogni processo riformatore, da concepire quindi in chiave unitaria, è chiaro che il tema deve sembrargli cruciale soprattutto stavolta. Se non altro perché propone un intreccio segnalato da più parti come carico di rischi di sbilanciamenti e criticità costituzionali, con la necessità di clausole di salvaguardia e altri provvisori tamponi giuridici. A suo giudizio, e lo ha ripetuto infinite volte, Italicum e riforma del Senato devono viaggiare «in parallelo», contestualmente, in quanto «si tengono», questione su cui insistono pure i sospettosissimi vertici di Forza Italia e la minoranza del Partito democratico. E, dopo la breve ma esplicita nota di ieri, è ancor più evidente che per lui una cosa non può stare senza l’altra, se non appunto molto problematicamente.
Questo, del resto, dovrebbe essere nelle sue intenzioni «il lascito» del secondo mandato al Quirinale: un Paese che si avvia con decisione a revisionare la propria architettura costituzionale. Basta rileggersi il testo del secondo discorso d’insediamento davanti alle Camere, il 22 aprile 2013, nel quale le riforme erano assunte come premessa per l’indispensabile modernizzazione del Paese. E non soltanto perché a chiederle sono gli italiani, ma perché da noi se le aspetta da troppo tempo l’Europa.
Marzio Breda
No, ha consigliato il padrone di casa, offrendogli una sponda e suggerendo una mediazione. Meglio garantire la stabilità assicurando che le elezioni saranno convocate solo alla loro scadenza fisiologica e che intanto nessuno sarà escluso dal cantiere d’ingegneria costituzionale. Meglio togliere ai partiti il sospetto che l’ansia di varare l’Italicum nasconda in realtà la smania del voto. E tanto meglio fare tutto questo mentre, forse già entro la fine dell’anno, potrebbe aprirsi la partita per la successione del capo dello Stato.
Ecco il senso con cui una nota ufficiosa diramata ieri dall’ufficio stampa del Quirinale permette di inquadrare l’ultimo incontro tra il presidente della Repubblica e il capo del governo, accompagnato dal ministro Maria Elena Boschi. Un faccia a faccia che segue quello di martedì con Anna Finocchiaro, relatrice del testo di modifica al sistema elettorale. Nel dubbio su chi davvero abbia inteso rassicurare chi (per rassicurare gli italiani), i due interlocutori si sono conc entrati «sull’iter parlamentare» dell’Italicum e della riforma — costituzionale, questa — del bicameralismo paritario, già «incardinati per la seconda lettura» delle Assemblee. E le «preoccupazioni delle forze politiche» segnalate dal Colle come comprensibili nell’attuale delicatissima fase, riguardano appunto le interpretazioni che stanno mettendo in «rapporto» questi due provvedimenti. Nei partiti, infatti, si dà quasi per scontato che, se Renzi insistesse ancora per imprimere un’accelerazione sul primo versante e invece rallentasse deliberatamente l’impegno sul secondo, ciò tradirebbe appunto una gran voglia di diroccare la legislatura e scattare in avanti andando alla conta popolare.
Ora, poiché la logica che ha sempre ispirato Napolitano è quella di spingere i partiti alla «più ampia condivisione» in ogni processo riformatore, da concepire quindi in chiave unitaria, è chiaro che il tema deve sembrargli cruciale soprattutto stavolta. Se non altro perché propone un intreccio segnalato da più parti come carico di rischi di sbilanciamenti e criticità costituzionali, con la necessità di clausole di salvaguardia e altri provvisori tamponi giuridici. A suo giudizio, e lo ha ripetuto infinite volte, Italicum e riforma del Senato devono viaggiare «in parallelo», contestualmente, in quanto «si tengono», questione su cui insistono pure i sospettosissimi vertici di Forza Italia e la minoranza del Partito democratico. E, dopo la breve ma esplicita nota di ieri, è ancor più evidente che per lui una cosa non può stare senza l’altra, se non appunto molto problematicamente.
Questo, del resto, dovrebbe essere nelle sue intenzioni «il lascito» del secondo mandato al Quirinale: un Paese che si avvia con decisione a revisionare la propria architettura costituzionale. Basta rileggersi il testo del secondo discorso d’insediamento davanti alle Camere, il 22 aprile 2013, nel quale le riforme erano assunte come premessa per l’indispensabile modernizzazione del Paese. E non soltanto perché a chiederle sono gli italiani, ma perché da noi se le aspetta da troppo tempo l’Europa.
Marzio Breda
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