Giorgio Agamben e la politicità dello schiavo

Giorgio Agamben e la politicità dello schiavo

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Con L’uso dei corpi (Neri Pozza) Giorgio Agamben porta a ter­mine una ricerca ini­ziata nel 1995 con Homo sacer: pro­getto e libro che hanno segnato la rifles­sione poli­tica di que­sti ultimi vent’anni. E ciò anche per­ché alcuni temi qui discussi hanno in alcuni casi per­sino anti­ci­pato o comun­que toc­cato sul vivo eventi tut­tora sen­si­bili. Si pensi ai geno­cidi che hanno chiuso il ven­te­simo secolo, ai nuovi campi di con­cen­tra­mento, ai muri nuo­va­mente innal­zati per sepa­rare le popo­la­zioni, allo stato di ecce­zione per­ma­nente dopo l’11 set­tem­bre, all’altrettanto per­ma­nente con­di­zione di debito cui la finan­zia­riz­za­zione dell’economia ha con­fi­nato i popoli, ai pro­fu­ghi, alle recru­de­scenti riven­di­ca­zioni di iden­tità etnica, al pro­blema di sta­bi­lire quando e quanto un corpo sia morto o ancora in vita.

L’uso dei corpi non costi­tui­sce tut­ta­via una vera con­clu­sione, né tan­to­meno un nuovo ini­zio. Piut­to­sto, come avverte lo stesso Agamben, que­sto libro è una rica­pi­to­la­zione e uno svi­luppo ulte­riore di que­stioni trat­tate lungo l’intero tra­gitto di Homo sacer.

Al prin­ci­pio di L’uso dei corpi vi è una que­stione a lungo dibat­tuta nella sto­ria: la figura dello schiavo, affron­tata qui a par­tire dalla Poli­tica di Ari­sto­tele e del diritto romano.

Dall’interpretazione che Agam­ben dà del testo ari­sto­te­lico emerge che più che una classe sepa­rata di indi­vi­dui gli schiavi sono una parte inse­pa­ra­bile di noi stessi che dob­biamo tenere in con­si­de­ra­zione e in qual­che modo gover­nare per far sì che pos­siamo acce­dere alla vita poli­tica e diven­tare così pie­na­mente umani. Lo schiavo non è solo una figura rele­gata al pas­sato o pro­pria di cul­ture che non si sono eman­ci­pate demo­cra­ti­ca­mente, ma una con­di­zione rie­mer­gente con la quale sotto diverse forme con­ti­nuiamo a fare i conti. Lo schiavo non è chia­mato a pro­durre un’opera spe­ci­fica, ma a fare «uso del corpo», a fare quelle azioni che per­met­tono al resto del corpo indi­vi­duale e sociale di libe­rarsi. La sua atti­vità è in tal senso «ino­pe­rosa» non per­ché non fa nulla, ma per­ché non si iden­ti­fica in un pro­dotto finale. Svi­lup­pando quanto aveva già ampia­mente trat­tato in Altis­sima povertà Agamben sug­ge­ri­sce qui di assu­mere tali «uso del corpo» e «ino­pe­ro­sità» come le strade della poli­tica a venire.

Si deli­nea così il biso­gno di un supe­ra­mento della stessa onto­lo­gia: la desti­tu­zione della domanda meta­fi­sica ed essen­zia­li­sta del «che cosa» con la domanda del «come». Per riu­scire in que­sto diventa cru­ciale supe­rare la stessa idea di rela­zione tra i due poli dell’essere. E ciò per­ché, come si è visto e come la sto­ria del pen­siero e quella poli­tica hanno dimo­strato, qual­siasi rela­zione tra atto e potenza si è tra­dotta sem­pre in una strut­tura gerar­chica che ha favo­rito sem­pre l’atto. Anche lad­dove, come in Kant, si è teo­riz­zata l’inaccessibilità all’essenza dell’essere, l’atto nella forma del dover-fare ha pre­valso ponen­dosi de facto come essenza.

Per Agamben dun­que, atto e potenza non vanno pen­sati in rap­porto, ma sem­pli­ce­mente a con­tatto. Nel con­tatto si genera l’uso che va a costi­tuire l’essere stesso il quale non esi­ste prima o dopo atto e potenza. In tal senso, si potrebbe dire che l’uso è quell’atto impro­dut­tivo, inap­pro­pria­bile e inco­sti­tui­bile che mostra sol­tanto la forma della potenza. Potenza inco­sti­tui­bile è quella che, nella parte finale del libro dove la teo­ria filo­so­fica torna alla poli­tica, Agamben chiama «potenza desti­tuente», con rife­ri­mento cri­tico sia alle teo­rie rivo­lu­zio­na­rie che vedono l’emancipazione poli­tica nella pri­mi­ge­nia forza del potere costi­tuente, sia a quelle anar­chi­che che, pur abo­lendo il prin­ci­pio costi­tuente, non pos­sono però fare a meno di per­pe­tuare la vio­lenza del comando. Alla fine, diri­mente diventa il nodo tra vio­lenza e poli­tica che Agamben invita a scio­gliere sulla strada trac­ciata da Ben­ja­min in una nuova figura che sia oltre il diritto, in grado di desti­tuire ogni maschera del sovrano. Forse que­sta figura è simile a quella della schiava alla quale veniva affi­data la matassa del pen­sus – lon­tana e sem­pre pre­sente desti­na­ta­ria, custode e con­tem­pla­trice dell’unica atti­vità umana libera dal pro­durre iden­tità e gerar­chie che sepa­rano: il pen­siero.



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