Messico. “Così abbiamo ucciso i 43 studenti”

Messico. “Così abbiamo ucciso i 43 studenti”

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GLI uomini della scientifica, avvolti nelle tute bianche, i guanti di lattice azzurri, muovono delicati i mucchietti di cenere rimasti in fondo alla discarica. Ad ogni tocco i resti si polverizzano. Su un panno vengono allineati solo quelli che resistono alla pressione delle dita: denti anneriti dal fuoco, mischiati a cenere, terriccio, legno, gomma, polvere di sassi.
Sono le uniche prove della strage. Una mattanza feroce, ordinata con arroganza e portata a termine con fredda disinvoltura. A Cocula, piccolo paese dello Stato di Guerrero, 120 chilometri a sudovest di Città del Messico, una delle regioni più povere e martoriate dalla violenza dei narcos, si sta compiendo un rito carico di dolore.
Si cercano le prove della scomparsa di 43 studenti dell’istituto agrario Raul Isidro Burgos, a due passi da Iguala, inseguiti, bloccati, arrestati da poliziotti corrotti e poi consegnati agli uomini del cartello dei Guerreros unidos , feroce banda di narcotrafficanti locali che hanno provveduto a interrogarli, torturarli, farli fuori con un colpo in testa e poi bruciarli in una enorme pira fatta di legna, pneumatici e pezzi di plastica e alimentata per ben 13 ore da gasolio e benzina.
Un vero film dell’orrore descritto nel dettaglio da tre balordi della banda, senza tradire la minima emozione. Agustin Garcia Reye, “ el chereje”, Patricio Reyes Landa, “ el pato” e Johnatan Osorio Gomez, “ el jona” hanno la stessa età di quelli che dicono di aver ucciso, bruciato, per poi triturare i resti, metterli nei sacchi dell’immondizia e lanciarli nel fiume San Juan, a valle della discarica comunale. I tre sono stati arrestati assieme ad altre 75 persone: poliziotti, commercianti, banditi. In cima, alla guida di una “cupola” che vede alleati polizia, magistrati, politica e narcotrafficanti, il sindaco José Luis Abarca, eletto tra le file del Partido de la revolución democratica (di sinistra) e sua moglie Maria de los Angeles Pineda Villa: una vera zarina, la mente di questa alleanza fatta di potere, soldi e sangue. Erano fuggiti: li hanno scovati la scorsa settimana, nascosti in una baracca a Città del Messico.
È accaduto tutto venerdì 26 settembre. Gli studenti dell’istituto agrario di Ayotzinapa, una scuola combattiva, di estrema sinistra, avevano lasciato il paesino per andare a manifestare contro politiche del lavoro che consideravano discriminatorie, forse diretti fino a Città del Messico. Non avevano soldi a sufficienza, e avevano chiesto agli autisti di un paio di bus di portarli gratis. Gli autisti avevano accettato. Ma il sindaco di Iguala temeva che i giovani volessero disturbare il discorso della moglie, intenzionata a candidarsi per succedergli. Appena usciti dal deposito di Iguala i bus erano stati bloccati da decine di auto della polizia. Si era scatenata una vera caccia all’uomo: 43 ragazzi erano stati bloccati sull’autostrada, caricati su un camion e un furgone e scomparsi.
I familiari si sono ribellati e mobilitati. La voci giravano in fretta, accusando il sindaco e sua moglie: «Sono i mandanti». La coppia si è indignata: «Quella sera era tutto tranquillo». Ma gli studenti erano già lontani, consegnati dalla polizia ai Guerreros unidos . Per gran parte della notte hanno vagato, una decina era morta soffocata dentro il cassone del camion. Gli altri sono stati ammazzati come cani: uno ad uno. Poi i narcos hanno trascinato i corpi come pacchi, ammassandoli su una pira. I corpi sono stati calcinati e per cancellare ogni traccia, i resti sono stati avvolti in sacchi di plastica e gettati nel fiume.
Il governo ha deciso di andare fino in fondo. Il presidente Enrique Pena Nieto si gioca la sua immagine e quella di un paese sconvolto da centomila morti e trentamila sequestri. I risultati sono arrivati dopo 33 giorni. «Faremo di tutto», ha annunciato il procuratore generale, Jesús Murino Karam, durante una tesa conferenza stampa, «ma sarà difficile procedere all’esame del Dna con i resti ritrovati». Ma i familiari non si rassegnano: troppe bugie, false speranze, troppi silenzi. «Servono le prove», dicono. «Siamo convinti che siano ancora vivi».


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