«Le bombe erano un ultimatum Telefoni muti e tememmo il golpe»
ROMA Nella sala del Bronzino adibita ad aula di corte d’assise, i giudici sono sistemati un gradino più in alto rispetto ad avvocati e pubblici ministeri, seduti di fronte a loro. Quando il presidente Alfredo Montalto, verbalizzate presenze e assenze, invita a far entrare il capo dello Stato, si apre una porta laterale e fa ingresso Giorgio Napolitano. I corazzieri scattano sull’attenti, gli avvocati si alzano in piedi, giudici e pm restano seduti. Il capo dello Stato prende posto sullo stesso piano rialzato della corte, alla sua destra, con in mano una cartellina che raccoglie alcuni documenti. Si siede e pronuncia la formula di rito, impegnandosi a dire tutta la verità.
Alle 10,05 comincia una testimonianza da cui l’accusa incassa una frase che — nella propria visione — conferma il quadro del ricatto allo Stato portato dai mafiosi e favorito da alcuni rappresentanti delle istituzioni. Riguardo agli attentati di Firenze, Roma e Milano nella primavera-estate del 1993 Napolitano, all’epoca presidente della Camera, dice: fu subito chiaro che erano nuovi sussulti della fazione più violenta di Cosa nostra, per porre lo Stato di fronte a un aut aut ; o si alleggeriva la pressione nei confronti della mafia o si rischiava il proseguimento degli attacchi destabilizzanti.
I sospetti di D’Ambrosio
Ma l’esame dei pm comincia con una premessa del procuratore aggiunto facente funzioni di capo, Leonardo Agueci, il quale sottolinea il riguardo dell’intero ufficio per Napolitano e l’alta funzione che esercita. Subito dopo tocca all’altro procuratore aggiunto, Vittorio Teresi, che comincia dal riepilogo degli incarichi istituzionali ricoperti dal testimone, per arrivare alla conoscenza con il magistrato Loris D’Ambrosio, nel 1996, quando Napolitano era ministro dell’Interno e lui capo di gabinetto al ministero della Giustizia. Salito al Quirinale nel 2006, Napolitano lo ritrovò che era già consigliere giuridico di Ciampi, e lo confermò nell’incarico: «Avevamo un rapporto direi quotidiano, che sfociò in affetto e stima ma sempre sul piano del lavoro, non facevamo conversazioni a ruota libera».
Ed eccoci al cuore della deposizione: la lettera con cui il 18 giugno 2012, un mese prima di morire, D’Ambrosio comunicò a Napolitano le proprie dimissioni (respinte), ed espresse il timore di essere stato trattato, fra il 1989 e il 1993, da «utile scriba» e «scudo per indicibili accordi». Il pm Teresi chiede a più riprese se il capo dello Stato abbia saputo di più circa questi sospetti.
«No — è la sintesi delle risposte — D’Ambrosio mi aveva trasmesso solo ansietà e sofferenza per la strumentalizzazione delle intercettazioni tra lui e Mancino. La lettera fu per me un fulmine a ciel sereno. Non ebbi sentore o percezione delle sue inquietudini relative al 1989-’93, ma dell’indignazione per il trattamento ricevuto, dopo aver dedicato una vita alle istituzioni, a costo di minacce che ebbero effetti sui suoi familiari (il riferimento è alle indagini svolte da D’Ambrosio sul terrorismo nero e i Servizi deviati alla Procura di Roma, ndr ). Era profondamente scosso perché veniva messa in dubbio la sua fedeltà istituzionale, si sentiva ferito a morte».
Difficili interpretazioni
La riservatezza costituzionalmente garantita delle attività presidenziali, «anche informali», consentirebbe a Napolitano di non parlare delle sue conversazioni con D’Ambrosio, ma il presidente non si ferma: «Non ebbi con lui discussioni sul passato». Nessun cenno agli «indicibili accordi», che del resto erano «ipotesi prive di sostegno oggettivo, ché altrimenti da magistrato avrebbe saputo cosa fare, mentre di questi dubbi non ha parlato né nelle audizioni parlamentari né ai pubblici ministeri». E gli accenni a ciò che avrebbe scritto, e invece non compare, nel libro di Maria Falcone in ricordo del fratello trucidato dalla mafia, «rimangono righe a cui è difficilissimo dare un’interpretazione».
La scorta dei Nocs
Con le domande del pm Nino Di Matteo, alle 11,10, si passa al dibattito parlamentare del 1992 sull’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario che introdusse il «carcere duro» per i boss. Napolitano spiega che «il presidente della Camera non entra nel merito dei provvedimenti né si confronta con i gruppi parlamentari», ma si dice «convinto che la strage di via D’Amelio rappresentò un colpo di acceleratore» all’approvazione della legge.
Ad altre domande su questo tema Napolitano risponde pur sottolineando più volte che «ci stiamo allontanando molto dal tema dell’esame»; lui ha buona memoria, garantisce, «ma non quella di un elefante», né può paragonarsi «a Pico della Mirandola», e il presidente della corte fa notare che certe dimenticanze, a tanti anni di distanza dai fatti, sono più che comprensibili.
Ricorda bene, invece, il testimone d’eccezione, le «voci» di attentato ai danni suoi o di Giovanni Spadolini raccolte dal Sismi nell’estate del 1993; ricorda che gliene parlò l’allora capo della polizia Vincenzo Parisi, affidandogli una discreta sorveglianza da parte dei Nocs durante una sua trasferta parigina; e ricorda anche di aver cambiato abitazione, trasferendosi nell’alloggio di Montecitorio, perché casa sua era in un vicolo di Roma dove sarebbero state a rischio altre persone.
Attacco allo Stato
Così come ricorda le ipotesi sulle strategie mafiose del ‘93 sebbene l’interpretazione dei fatti sia «materia opinabile», e i timori di Ciampi (all’epoca capo del governo) per un possibile colpo di Stato; la notte delle bombe ci fu un black out telefonico, tipico ingrediente del golpe come riportato in un libro degli anni Settanta citato da Napolitano. Una situazione di «fibrillazione» e attacco frontale allo Stato che però — nella ricostruzione del presidente — non impedì una prosecuzione della «lotta senza quartiere» alla mafia, non inficiata dalle minacce personali: lui e gli altri responsabili istituzionali avevano vissuto la stagione del terrorismo «quando non volavano solo minacce ma anche pallottole, e servire il Paese significa anche mettere a rischio la propria vita».
A novembre del ‘93 però il ministro Conso decise di non prorogare il «carcere duro» per oltre 300 detenuti, sulla base dell’idea che era meglio favorire la fazione mafiosa meno violenta nel rapporto con lo Stato, «ma sono analisi oggetto della pubblicistica, di cui io non seppi niente»; quanto ai «41 bis» il presidente della corte blocca la risposta: «La domanda non è ammessa, non è rilevante».
Dopo una pausa di venti minuti, alle 12,35 cominciano il controesame dei difensori e le domande dell’avvocato Cianferoni, per conto di Riina. Ci sono specificazioni e approfondimenti, e a un quesito del legale del «capo dei capi» di Cosa nostra Napolitano ribatte: «Non voglio rubare il mestiere alla pubblica accusa avventurandomi nei rapporti tra mafia e servizi segreti». Un ulteriore quesito sulle opinioni di Scalfaro viene bloccato, e alle 13,35 la deposizione finisce. Il presidente della corte Alfredo Montalto stringe la mano al capo dello Stato, che saluta gli altri presenti con un cenno del capo. L’udienza è tolta.
Giovanni Bianconi
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