L’onda di piena che travolge una classe politica senza coraggio

L’onda di piena che travolge una classe politica senza coraggio

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UN SINDACO via l’altro, a male parole. Genova li spazza via dal suo cuore incollerito come detriti alluvionali. Nel fango, della classe dirigente galleggia solo chi ha più pelo sullo stomaco. E dunque ha l’astuzia di non farsi vedere lì in mezzo ai negozianti dell’ultimo quadrilatero commerciale sopravvissuto nel centro cittadino, sempre gli stessi, ancora una volta a spalare e buttar via merce. A loro si chiede il coraggio di ricominciare, di vincere lo scoramento, l’adesso basta. Ma chi ce l’ha ancora, il coraggio di guardarli in faccia?
Il sindaco Doria si è presentato fra i suoi concittadini alluvionati ieri, in netto ritardo. Beppe Grillo, opportunamente, ha rinviato a martedì, sempre che la pioggia e il Bisagno diano requie. Perfino i propositi insurrezionali lanciati in piazza Corvetto l’anno scorso, durante le cinque giornate di sciopero a oltranza degli autoferrotranvieri, e poi a piazza della Vittoria coi Forconi, si smorzano nell’impotenza conclamata di una classe dirigente che annaspa tutta quanta, mentre Genova resta in balia delle acque che scorrono nel suo sottosuolo.
Il premier Renzi se la cava scrivendo su Facebook che le passerelle in questi casi non servono. Il governatore Burlando, commissario dei lavori di copertura del Bisagno e dello scolmatore del rio Fereggiano rimasto sulla carta, preferisce andare in visita nei paesi sinistrati dell’entroterra. Già l’anno scorso la rivolta degli autoferrotranvieri che paralizzò Genova suggerì prudentemente a Renzi e Burlando di annullare un incontro congiunto organizzato in vista delle primarie Pd. Genova è città soggetta a moti d’ira, funesti come i cataclismi naturali che la violentano con prevedibile sistematicità. Basta che piova forte, succede tutti gli anni. Si sapeva che sarebbe successo ancora. E intanto?
Qui si percepisce il vuoto della politica. O meglio la paura di osare una forzatura che avrebbe potuto in seguito costringere le amministrazioni locali al pagamento di risarcimenti salati, nel caso avesse dato il via libera a opere su cui pendevano ricorsi al Tar. Per questo i 35 milioni già stanziati sono rimasti nel cassetto. Un caos tale che a settembre il sindaco stesso è andato in confusione: ha protestato contro gli inaccettabili ritardi provocati dalla magistratura, ignorando che due mesi prima il Tar del Lazio aveva revocato il blocco da lui denunciato. Anche se, bisogna precisarlo, l’alluvione non si sarebbe evitata comunque. Perché il tempo necessario a prevenire la nuova sciagura, uguale identica a quella del 4 novembre 2011 e delle tante altre precedenti, era già stato sprecato. La psicosi del ricorso ha prevalso sull’urgenza di impedire nuove catastrofi.
Sono centomila i genovesi che vivono nel rischio permanente di alluvione. Le stesse opere approvate per rimediare il dissesto di una cementificazione scellerata, sono antidoti parziali che non garantiscono una città che necessiterebbe di interventi radicali. I funzionari dell’Arpal, l’agenzia regionale dell’ambiente che non ha dato l’allarme, lavorano con tecnologie inadeguate. Nessuna task force per l’emergenza era stata predisposta. La retorica encomiastica sugli angeli del fango, i ragazzi senza vanghe e senza stivali accorsi in sostegno ai sinistrati, stride con la realtà di una pubblica amministrazione impreparata a coordinarli.
Così, nel disastro strutturale divenuto cronico, sprofonda anche il senso dello Stato, la fiducia nelle istituzioni. E un uomo perbene come il sindaco Marco Doria, riluttante al protagonismo mediati- co, diviene suo malgrado emblema di una debolezza inquietante.
«Fossi stato il sindaco mi sarei incatenato a Roma finché non si fossero decisi a dare il via libera ai lavori», è la frase più gentile che gli ha gridato un ragazzo durante il sopralluogo di ieri. Lui incassa impietrito, gli chiedono di essere quello che non è e non sarà mai. Lo insultano. Che si dimezzi lo stipendio di cinquemila euro per dodici mensilità. Che prenda la vanga e si metta a pulire i tombini, visto che prima non ha fatto nulla.
Altro che Sbloccaitalia, e magari si potessero addossare alla non meglio precisata burocrazia tutte le colpe, come ha scritto ieri Renzi sparando la cifra stratosferica di due miliardi (certo non tutti per Genova). Intanto il sindaco ha fatto il minimo che poteva fare per alleviare la caduta in disgrazia economica dei cittadini alluvionati: ha sospeso il pagamento delle tasse municipali. Ma è su quello che Doria e Burlando non hanno fatto prima, che restano aperti gli interrogativi.
Ricordo il fastidio con cui il sindaco-professore, sollecitato a guidare una rivolta contro il patto di stabilità che rischiava di mandare in tilt i servizi pubblici, denunciava l’anno scorso la degenerazione personalistica della politica. Uomo di sinistra affezionato alle regole della rappresentanza democratica, trascinato dalla generosità di don Andrea Gallo a riempire il vuoto provocato dalle divisioni interne del Pd, Doria si negava a chi gli chiedeva prestazioni muscolari da Mission Impossible. Può anche darsi che avesse ragione, lo si è visto in primavera quando l’establishment cittadino si afflosciava miseramente a seguito dello scandalo Carige in cui il banchiere Berneschi si è portato dietro buona parte della Genova che conta.
Ma è nel rapporto con una natura maligna e con una città perennemente in pericolo che la fragilità di Doria si ritrova messa a nudo. Cosa deve fare un sindaco quando sa che alle prime piogge torrenziali sarà di nuovo alluvione? Va bene dire no alla sceneggiata di incatenarsi a Roma, ma è mai possibile che l’alternativa sia un’inazione rassegnata?
Così si è prodotto uno squarcio doloroso nel cuore stesso di Genova. Dai banchi del pesce e della frutta del Mercato Orientale ai piccoli esercizi commerciali di Borgo Incrociati, giù verso il mare fino alla Foce e a Piazzale Kennedy, senza risparmiare via XX settembre. Stavolta i danni sono stati maggiori di tre anni fa, anche se il morto è uno solo anziché sei. Negli stessi negozi in cui nel 2011 il fango si era fermato a mezzo metro d’altezza, in questi giorni è tre volte tanto. L’Arpal non lo aveva previsto, il sindaco è andato alla prima del teatro Carlo Felice. Ma la pioggia cadeva torrenziale e i torrenti ribollivano anche in assenza di segnalazioni formali. L’hanno avuta vinta il fatalismo e la rassegnazione.
Nei giorni dell’alluvione Beppe Grillo aveva convocato a Roma il raduno del Circo Massimo e non se l’è sentita di rientrare precipitosamente a Genova. Chissà, forse neanche lui è più il Grillo di una volta. Prudente è anche la sua decisione di rinviare a domani una protesta — con richiesta di dimissioni di Doria — che deve anch’essa subordinarsi alle previsioni meteorologiche avverse. Temo però che ci sia dell’altro: anche il capopopolo del “tutti a casa”, il leader dell’antipolitica, perfino Beppe Grillo forse avverte che questo fango sta trascinando con sé ogni speranza.



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