Il pasticcio dei lavori sul torrente fermi da 4 anni nonostante i soldi
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Come spiegava qualche mese fa su queste pagine Marco Imarisio, raccontando di anni perduti, lettere smarrite, tormentoni giudiziari, commissari a girandola, quando nel 1928 studiò come ingabbiare il Bisagno che scende Passo della Scoffera e solca il centro del capoluogo ligure, il progettista incaricato dal Duce di interrare il torrente calcolò che nei momenti di piena potesse rovesciarsi a valle portando al massimo 500 metri cubi d’acqua al secondo. Sarà perché è stato sconvolto il territorio alle spalle della città, sarà perché è cambiato il clima, certo è che sbagliava i conti. Quando si gonfia sotto improvvise piogge torrenziali con l’apporto di altri sei torrenti, il Bisagno irrompe furibondo in città portandone, di litri, il triplo: 1.450.
Era il 1974 quando dopo l’ennesimo spavento quella volta senza morti, l’allora ministro dell’Industria, del commercio e dell’artigianato, Ciriaco De Mita, definì il Bisagno una «emergenza nazionale». Quattro decenni dopo siamo ancora qui. A rileggere documenti della struttura d’emergenza di Palazzo Chigi intitolati: «Come e perché da 3 anni sul Bisagno lavorano avvocati e magistrati ma non operai».
A chiederci come sia possibile che la «rimozione del tappo» nel tratto terminale del fiume, tappo che ogni tanto salta, sia bloccata da anni dalle risse intorno agli appalti nonostante fosse stata riconosciuta come una criticità a livello nazionale ed europeo almeno da quando fu inserita nel «Piano degli interventi strutturali per la riduzione del rischio idrogeologico in aree urbane ad altissima vulnerabilità» redatto nel luglio 2001.
Chi abbia ragione tra i due consorzi di imprese che si scannano intorno all’appalto per 35.730.000 euro stanziati l’11 ottobre 2010, con tutto il rispetto per le ragioni dei contendenti, non può interessare più di tanto i cittadini italiani. Che scoprono basiti come a distanza di anni dai lutti, dalle lacrime, dalle promesse, dai solenni giuramenti del 2011 praticamente nulla sia stato fatto. Per ragioni di carte. Solo di carte. E non vale solo per Genova, dove oggi piangiamo l’ultimo degli oltre cinquemila morti uccisi negli ultimi decenni da frane e alluvioni che spesso si potevano evitare.
La stessa «Struttura di missione» di Palazzo Chigi denuncia i ritardi nei lavori per mettere in sicurezza altre aree ad alto rischio. Da quella del Seveso a quella dell’Arno, da quella del Tagliamento («Si discute sulle soluzioni da 48 anni, con 41 milioni da spendere») a quella di Sarno e di Quindici. Dove nel maggio 1998 morirono, travolte dal fango, 160 persone.
Spiega una relazione che «il “grande progetto Sarno” consiste nell’apertura di uno scolmatore che sfocia a Torre Annunziata sfruttando il percorso del “canale Conte di Sarno” realizzato negli anni 70 e mai utilizzato» e che è prevista anche «la realizzazione di vasche e aree ad esondazione controllata per una superficie complessiva di 100 ettari circa» per mettere al sicuro almeno «i 44.000 abitanti più a rischio in caso di piena» dato che «allo stato attuale l’insufficienza idraulica del fiume provoca esondazioni praticamente a ogni pioggia».
Bene: l’intero progetto, rifinito in tutti i dettagli dai tecnici della Autorità di Bacino e dell’Agenzia regionale Arcadis, con 23 interventi suddivisi in 5 lotti, è però fermo. E restano così in sospeso i 247,4 milioni di euro stanziati per l’opera. Quasi tutti fondi europei. Anche sul Sarno, accusano da Palazzo Chigi, «sono in corso guerre legali tra Comuni e tra Comuni e Regione». Un ammasso di conflitti a volte anche giustificati: molti cittadini si pongono ad esempio il problema delle vasche: il Sarno è inquinatissimo, non sarà il caso, prima, di procedere col disinquinamento?
Fatto sta che decine di migliaia di persone, che vivono in un’area sei volte più popolata rispetto alla media nazionale, restano lì, tre lustri dopo la catastrofe, a rileggere quei dati che spiegano come Sarno sia stata colpita da 5 frane nel secolo dal 1841 al 1939 e da 36 (trentasei!) dopo la seconda guerra mondiale. E a sperare che il buon Dio e la natura perdonino i loro sventurati ritardi.
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