La parabola araba Da amici del Califfo ad alleati nei raid
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Dignità e coerenza, in politica, saranno pure virtù impossibili da praticare. Ma la faccia tosta dovrebbe avere dei limiti, in nome della decenza. I Paesi arabi che hanno accettato di affiancare gli Usa nella guerra contro lo Stato islamico del sanguinario Al Baghdadi rappresentano il trionfo del più vergognoso doppiogiochismo. A parte l’eccezione del lealissimo regno di Giordania, tutti gli altri hanno moltissimo da farsi perdonare. Arabia Saudita, Emirati, Kuwait, Bahrein e Qatar sono stati infatti tra i primi responsabili dell’ascesa irresistibile del Califfo della morte. A diversi livelli lo hanno aiutato, finanziato, armato, sostenuto, in odio al regime siriano di Assad, alleato dell’Iran sciita, e forse per indebolire un produttore di petrolio concorrente: l’Iraq. Riad è il più potente dei voltagabbana. I sauditi pensano di poter comprare tutto e tutti. Hanno flirtato persino con gli odiati Fratelli musulmani, per poi coprire di miliardi l’Egitto del generale Al Sisi. Gli Emirati sono da sempre la banca che non pone domande sulla provenienza del denaro. Il Kuwait, che ha subito l’egoismo dei «fratelli», non impara mai abbastanza. Il Bahrein, dipendente da Riad, fa quello che gli viene chiesto. E poi c’è il Qatar: minuscolo Paese miliardario, avido ed egoista, che sottopone la politica alle bizze del suo emiro. Qualcuno ha sibilato: anche Obama, che l’anno scorso non aveva escluso di bombardare la Siria di Assad, oggi di fatto è «alleato» del dittatore contro il Califfo, perché «il nemico del mio nemico è mio amico». Vero, però i mezzi per sfidare il mondo Al Baghdadi non li ha avuti di sicuro dagli Usa.
Antonio Ferrari
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