Il Grande Fratello israeliano e le vite degli altri
Blocco di colonie di Gush Etzion, Cisgiordania. Ufficio del dipartimento israeliano per la gestione dei Territori Occupati, sezione di Betlemme. Una stanza illuminata da una neon, un tavolo vuoto al centro. Di fronte, un ufficiale dei servizi segreti israeliani che parla perfettamente arabo – con un qualcosa che ricorda l’accento libanese – e ti offre un caffè. È gentile, scherza, cerca di metterti a tuo agio. Ma tu sei nervoso, cerchi di mantenere la calma. Hai vent’anni, fuori gli anni più duri della la Seconda Intifada.
Resti là dentro per cinque ore, mentre lui ti mostra le foto satellitari di casa tua e quelle dei tuoi genitori. Poi ti dice che sa bene che tua madre è malata di cuore e le farebbe comodo una visita specialistica in Israele. Anche tuo padre è malato, va a curarsi in Giordania ogni due o tre mesi: ora l’ufficiale ti minaccia, o ci aiuti o la prossima volta lo blocchiamo al confine e in Giordania a curarsi non ci va. Ma tu, niente, non cedi. Allora tira fuori tuo fratello: lavora in Israele, ha un permesso di lavoro. Se non collabori, glielo togliamo e perde il lavoro.
Quella di Y. non è una storia particolare. Nei Territori è la normalità: «Lo fanno con tanti, continuamente –spiega al manifesto il giovane – Possono fermarti ovunque, in qualsiasi momento: possono bloccarti al confine di ritorno dalla Giordania, per strada durante un controllo. A me il Mukhabarat [servizi segreti in arabo] israeliano ha consegnato l’ordine di comparizione mentre andavo a comprare un pollo, per il pranzo del venerdì. Era il 2002, in piena Seconda Intifada».
«Lo fanno soprattutto con i ragazzini, i più deboli. Ti promettono denaro e aiuto per entrare in Israele. Oppure ti minacciano: di te sanno tutto, quanti siete in famiglia, di che malattia soffre tuo padre, se tuo fratello ha problemi con l’esercito. E usano queste informazioni per costringerti a collaborare. Ti ricattano e devi essere bravo a non caderci. Se ci cadi, è un tunnel senza via di uscita».
“Omar”, il film palestinese finito alla Notte degli Oscar il febbraio scorso, lo racconta bene: un sistema che ricorda il Kgb nella Germania dell’Est o il Grande Fratello di Orwell. Un sistema oliato e vastissimo, capace di controllare ogni singolo palestinese. Raccolte le informazioni, individuate le debolezze, scatta il ricatto da parte israeliana. Alcuni sono costretti ad accettare di diventare collaboratori, un fenomeno ampio ma difficilmente quantificabile, di cui spesso i palestinesi preferiscono non parlare, preferiscono minimizzare. Alla prima di “Omar” nel cinema Yabous di Gerusalemme Est, gli spettatori palestinesi sono usciti con l’amaro in bocca: «Bel film, ma non è vero che i collaboratori sono così tanti, questo è una pellicola da occidentali».
In realtà, lo sanno tutti e lo sanno bene: il controllo è pressoché totale. Si parla con tutti, ma ci si fida di pochi. Perché Israele sa tutto – o quasi – di tutti. Ascolta le tue telefonate, legge le tue e-mail e la tua corrispondenza, sa se qualcuno in famiglia ha bisogno di cure specialistiche, sa se un marito tradisce la moglie o se un ragazzino è omosessuale e non può dirlo. Lo sa perché spia. Per farlo le autorità israeliane hanno creato una specifica unità militare, l’unità 8200, in ebraico Yehida Shmoneh-Matayim. Una delle più segrete, ma oggi portata ai disonori delle cronache da 43 ufficiali, ex istruttori e soldati che dopo aver servito nella 8200 hanno deciso di uscirne.
Con una lettera indirizzata al premier Netanyahu, al capo dell’esercito e al capo dei servizi segreti, i 43 si sono tirati fuori da un sistema che definiscono volto alla «persecuzione politica e personale», allo spionaggio invasivo e folle di tutta la popolazione palestinese. Lo dicono chiaramente, nella loro lettera: il nostro lavoro non consiste nel cercare informazioni su soggetti che vorrebbero compiere atti contro Israele, su miliziani o membri di partito. Questa non è che una minima parte del lavoro. La quotidianità del lavoro è un’altra: si spia sistematicamente ogni aspetto della vita palestinese, di ogni persona residente nei Territori.
«Noi, veterani dell’unità 8200, riservisti del passato e del presente, dichiariamo di rifiutare di prendere parte in azioni contro i palestinesi e rifiutiamo di continuare a servire come strumenti di controllo militare nei Territori Occupati», si legge nell’incipit della lettera. E poi ancora: «La popolazione palestinese sotto legge militare è completamente esposta allo spionaggio e la sorveglianza dell’intelligence israeliana. È usata a fini di persecuzione politica e di divisione interna della società, attraverso il reclutamento di collaboratori e mettendo una parte della società palestinese contro l’altra».
La presa di posizione non è ovviamente piaciuta ai vertici israeliani: il ministro della Difesa Ya’alon l’ha definita un tentativo «folle e offensivo» di danneggiare l’unità, mentre l’esercito ha promesso un’azione disciplinare «chiara» contro i neo obiettori di coscienza. La minaccia arriva da Facebook e dall’ultimo post del portavoce delle forze armate, Motti Almoz: «Non c’è posto per il rifiuto nell’esercito israeliano ». Alla faccia della democrazia.
Non è piaciuta nemmeno ai colleghi, ai commilitoni dell’unità 8200, che in una contro-lettera si sono dissociati dalle posizioni dei 43: «Esprimiamo lo choc, il disgusto e la completa dissociazione da quella deplorevole lettera. Il rifiuto politico non ha spazio qui, nell’unità 8200. Il momento in cui siamo chiamati a servire la bandiera, mettiamo da parte le nostre inclinazioni politiche e le nostre opinioni e serviamo lo stato». Parole che confermano quanto descritto dai 43 obiettori: l’ambiente in cui l’attività di spionaggio si realizza – spiegano – trasuda di machismo e impunità: nessuno osa mettere in discussione un ordine, anche se questo si rivela mortale per palestinesi innocenti, come avvenuto negli anni passati con raid contro Gaza, mirati ad uccidere un leader di Hamas e conclusisi con stragi di civili. Si scherza, si ride, quando si ascoltano le telefonate personali del palestinese spiato.
«Dopo aver servito nei corpi di intelligence – ha raccontato uno dei firmatari al The Guardian – ho avuto un momento di choc mentre guardavo il film ‘Le vite degli altri’, sulla polizia segreta nella Germania dell’Est. Da una parte mi sono sentito solidale con le vittime, gli oppressi a cui era negato ogni diritto fondamentale che a me è garantito. Dall’altra parte ho realizzato che il mio lavoro era proprio quello, quello dell’oppressore. Tutti i palestinesi sono esposti ad un monitoraggio no-stop senza alcuna protezione legale. Un soldato semplice può decidere da solo se qualcuno è meritevole di diventare target. Non si sono procedure da seguire né modi per determinare violazioni dei diritti. Non esiste il concetto di diritto per i palestinesi. Ogni palestinese è un obiettivo e può subire sanzioni come il rifiuto di un permesso in Israele, abusi fisici, estorsioni».
Alla lettera i 43 obiettori di coscienza hanno allegato una serie di testimonianze dirette di quello che era il lavoro di ufficio nell’unità 8200. I target, «palestinesi innocenti non affatto connessi con attività militari». Un Grande Fratello super tecnologico (si dice che dal quartier generale della 8200 sia partito il virus Stuxnet che attaccò il programma nucleare iraniano) che immagazzina ogni informazione sensibile – dai problemi finanziari alla salute, dalle preferenze sessuali ai tradimenti – e la usa per estorcere una collaborazione, forzarla, spezzare le normali relazioni interne della società palestinese.
Perché alla fine, è questo il risultato: una società fragile, minata alla base dalle politiche divisorie messe in piedi dall’occupante, nel quale alla fine potresti non fidarti più di nessuno, né dei tuoi amici di infanzia né ella tua famiglia. «Qualche tempo dopo il mio interrogatorio – conclude Y. – hanno arrestato un mio amico, attivo con me all’università, impegnato in politica da una vita. Era la mia guida. Dopo tre settimane di interrogatorio, ha ceduto. Ha deciso di parlare, collaborare. Quella sera ho pianto».
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