La ferocia dell’umiliazione per i prigionieri ucraini
HANNO sapore arcaico e al tempo stesso modernissimo le immagini dei prigionieri ucraini fatti sfilare a Donetsk dai separatisti filorussi fra le urla e gli insulti della folla. Con le mani legate dietro la schiena e con il capo chino, controllati da soldati armati e da cani, in una giornata assolata.
ACCANTO a carri armati distrutti e mostrati come trofei. Nelle stesse ore in cui Kiev festeggiava l’indipendenza dalla Russia e papa Francesco invitava a pregare per «l’amata terra ucraina». All’indomani della visita a Kiev di Angela Merkel, e in un conflitto che è ben lontano dagli estremi di ferocia di altre guerre (o da quelli conosciuti dai conflitti fra ucraini e polacchi nello scenario della seconda guerra mondiale, all’ombra delle stragi e delle devastazioni naziste e sovietiche).
È questa sensazione di straniamento a colpire, in questo involontario rovesciamento delle parate trionfali sulla piazza Rossa. In questo riproporsi del rito del dominio: e della partecipazione popolare a quel rito, a quel “diritto all’umiliazione”. In questo riproporre la più antica delle barbarie nel mondo della moderna potenza mediatica, dalle televisioni al web. Non sono certo le immagini più feroci che abbiamo visto, anche in tempi recentissimi: anzi, al confronto di alcune di esse quelle di ieri sembrano quasi “pacifiche”. Due mesi prima della decapitazione del reporter americano James Foley, ad esempio, vedemmo con orrore la preparazione di un esecuzione di massa di soldati iracheni
catturati dai combattenti dell’Is.
Un’altra guerra, certo, con traumi e fondamentalismi estremi, ma è drammatico che l’evocazione venga comunque spontanea. E che la mente si affolli disordinatamente di altre immagini, di diversa efferatezza e con differenti esiti: si pensi, risalendo a dieci anni fa, agli ostaggi giapponesi in mano alle Brigate dei mujaheddin islamici, con i mitra puntati alla testa e un coltello alla gola. O, per altri versi, alle umiliazioni inflitte ai prigionieri iracheni da soldatesse e da soldati americani nel carcere di Abu Ghraib: con quei cappucci, quei cani, quelle oscene simulazioni e — soprattutto — con quel salto di quotidiana ferocia che quelle immagini “private”, realizzate ad uso privato, segnalavano. Una vergogna simbolicamente funesta che l’America impose in primo luogo a se stessa, un elettroshock di cattiva coscienza, per usare le parole di allora di Jean Baudrillard. E si pensi anche all’immagine di Saddam Hussein vinto, catturato e umiliato. Oppure, per evocare la nostra storia, alle foto diffuse dalle Brigate rosse: iniziarono nel 1972 con le immagini di un dirigente d’azienda sequestrato e poi liberato, Idalgo Macchiarini, e culminarono nel 1978 con quelle di Aldo Moro.
Eppure, tutto all’opposto, la denuncia della disumanità è stata spesso la cifra di immagini che disvelavano invece sopraffazioni e ferocie. Esponevano all’indignazione collettiva un infierire sugli inermi sin lì occultato. Vengono in mente le immagini scattate alla fine degli anni sessanta da Don Luce che proponevano come un pugno nello stomaco i prigionieri nordvietnamiti agonizzanti nelle “gabbie di tigre”. O quelle che valsero il premio Pulitzer ad Eddie Adams, nel corso di quella stessa guerra: mostravano il colonnello sudvietnamita Loan che nel centro di Saigon assassinava a freddo un prigioniero vietcong, pantaloni corti e mani legate dietro alla schiena. Le immagini di Don Luce e di Eddie Adams risvegliarono la coscienza dell’America, erano la denuncia di un crimine della propria parte compiuta da giornalisti coraggiosi: tutto al contrario nella Donetsk di ieri vi è stato l’antico bisogno della ostentazione, la rivendicazione delle più antiche pulsioni di disumanità. Con un “consenso di popolo”. Una affermazione del proprio dominio che si sostituisce alla prima e più immediata arma di propaganda, la denuncia della ferocia altrui.
Del resto la tensione fra i due poli corre attraverso i secoli: si pensi a quell’infierire sul corpo del nemico ucciso cui Giovanni De Luna ha dedicato qualche anno fa un libro intenso, inquietante e bellissimo. E di cui sono simbolo nella nostra storia i corpi dei partigiani appesi agli alberi o esposti nelle piazze dai nazisti e dai fascisti di Salò (e di cui costituirono il terribile “rovesciamento” i corpi di Mussolini, della Petacci e dei gerarchi appesi per i piedi a piazzale Loreto). Si pensi anche a quell’occultare, invece, il corpo del nemico ucciso, negando ai parenti sin un luogo del dolore, che è stata la tremenda cifra delle foibe istriane.
Eventi lontanissimi, certo. Traumi di altre guerre e talora di altri secoli, ma è quasi un obbligo evocarli di fronte alle pur incruente immagini di una assolata e furente domenica ucraina. Immagini di un conflitto quasi “ai margini”, rispetto ad altri scenari, e nel cuore della nostra Europa. Ancor più inquietanti, dunque.
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