St. Louis, in scena una guerra di classe
La rivolta di Ferguson, in Missouri, sarà un punto di svolta nella lotta contro l’ingiustizia razziale, oppure una piccola nota a piè di pagina in qualche tesi di dottorato sulle sollevazioni civili nei primi anni del XXI secolo?
La risposta può essere trovata nel maggio del 1970. Avrete sentito parlare della sparatoria della Kent State: il 4 maggio 1970 la guardia nazionale dell’Ohio aprì il fuoco sugli studenti in protesta alla Kent State University. In 13 secondi di sparatoria, sono stati uccisi quattro studenti e nove sono rimasti feriti.
Lo shock e il clamore sfociarono in uno sciopero nazionale di quattro milioni di studenti che chiusero più di 450 campus. Cinque giorni dopo la sparatoria, 100.000 manifestanti si riunirono a Washington: la gioventù del paese si mobilitò energicamente per porre fine alla guerra in Vietnam, al razzismo, al sessismo e alla fiducia cieca nelle istituzioni politiche.
Probabilmente non avete sentito parlare della sparatoria a Jackson State. Il 14 maggio, dieci giorni dopo che la Kent State aveva infiammato la nazione, alla Jackson State University nel Mississippi, in prevalenza nera, la polizia uccise a fucilate due studenti neri (un liceale e il padre di un bambino di 18 mesi) e ne ha feriti altri dodici.
Non c’è stato alcun clamore nazionale. Il paese non si è affatto mobilitato. Quel leviatano senza cuore che chiamiamo Storia ha inghiottito l’intero evento, cancellandolo dalla memoria nazionale. Se non vogliamo che anche l’atrocità di Ferguson sia inghiottita e diventi niente più che un’irritazione intestinale della storia, dobbiamo affrontare la situazione non solo come un altro atto di sistematico razzismo, ma come ciò che è: guerra di classe.
Focalizzandosi solo sull’aspetto razziale, la discussione diventa se l’assassinio di Michael Brown (o quelli degli altri tre uomini neri disarmati uccisi dalla polizia negli Stati Uniti nel giro di un mese) riguarda la discriminazione o se la polizia è stata giustificata. Allora discuteremo se non c’è negli Stati uniti tanto razzismo dei neri contro i bianchi quanto ce n’è dei bianchi contro i neri. (Sì, c’è. Ma, in generale, quello dei bianchi contro i neri ha pesanti conseguenze sul futuro della comunità nera. Quello dei neri contro i bianchi non ha quasi nessun impatto sociale misurabile.) (…)
Questo distrae l’America da una questione più ampia, cioè che gli obiettivi di eccessiva reazione poliziesca sono meno basati sul colore della pelle e più su una calamità che è perfino peggio dell’ebola: l’essere poveri. Ovviamente, per molti in America essere una persona di colore è sinonimo di essere poveri, ed esseri poveri è sinonimo di essere un criminale. Ironicamente, questa errata percezione è vera anche tra i poveri. Ed è quello che lo status quo vuole.
Il rapporto sul censimento degli Usa sostiene che 50 milioni di americani sono poveri. 50 milioni di elettori costituiscono un potente blocco se fosse organizzato nel tentativo di perseguire comuni obiettivi economici. Dunque, è cruciale per l’1% più ricco mantenere i poveri divisi distraendoli con questioni emotive come l’immigrazione, l’aborto e il controllo delle armi, in modo che non si fermino a chiedersi come siano stati fregati per così tanto tempo. Un modo per tenere divisi questi 50 milioni è la disinformazione. (…) Secondo il rapporto del 2012 del Pew Research Center, solo la metà delle famiglie americane sono a medio reddito (meno 11% rispetto agli anni ’70). La cosa sconvolgente è che meno che mai gli americani credono nel mantra dell’American Dream, per cui se lavori duro ce la farai.
*Pubblicato su time?.com, tradotto da com?mo?n?ware?.org
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