Tra i neri in rivolta di Ferguson

Tra i neri in rivolta di Ferguson

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FERGUSON (MISSOURI). «COS’ALTRO ci vuole perché si decidano ad arrestare l’assassino di mio figlio? » Lesley McSpadden si asciuga una lacrima, e non vuole urlare. Con i suoi capelli tinti di biondo e tagliati cortissimi, sembra una ragazzina. Non la mamma, lei potrebbe essere la sorella di Michael Brown, il 18enne ucciso il 9 agosto da un poliziotto qui a Ferguson, Missouri. Un’esecuzione feroce. Lo dice con nove giorni di ritardo la prima autopsia credibile: sei pallottole lo hanno crivellato, di cui due alla testa, i due colpi mortali che lo hanno finito quando lui già stava cadendo. Davvero, cos’altro ci vuole, perché l’agente Darren Wilson tuttora protetto dalla polizia di Saint Louis venga almeno arrestato, interrogato da un giudice? La signora McSpadden implora giustizia qui a West Florissant Avenue, in quello che è diventato il Ground Zero della nuova tragedia razziale che traumatizza l’America.
Proprio questa America di Barack Obama. Il primo presidente nero della storia ha dovuto interrompere le sue vacanze, si è precipitato a Washington per un vertice straordinario. Col presidente c’è Eric Holder, il suo ministro di Giustizia: afroamericano anche lui. «Ho ordinato – annuncia il presidente – un’inchiesta federale sul terreno. Holder andrà a Ferguson mercoledì. La vasta maggioranza delle proteste è pacifica, solo una minoranza è violenta. Io capisco l’angoscia creata dalla morte di Michael. La libertà di manifestare va protetta, non ci sono scuse per l’uso eccessivo di forza da parte della polizia. Dobbiamo sanare le nostre ferite, cercare insieme la nostra umanità. Gli ideali dell’America unita devono prevalere sulle diffidenze. Troppi giovani di colore sono emarginati, e circondati da diffidenze. Dobbiamo imparare ad ascoltare. E deve rimanere una differenza tra i mezzi militari usati in guerra, e le forze dell’ordine locali».
È questa l’America più multietnica e più liberal della storia, lo dice l’immagine di quei due leader neri riuniti alla Casa Bianca. E costretti a occuparsi di un’altra metà del paese: questo profondo Sud dove il Missouri è uno degli Stati più razzisti, più diseguali, segnato da una segregazione non più legale ma ancora reale, cinquant’anni dopo le grandi battaglie per i diritti civili di Martin Luther King.
Ferguson, cittadina di 21mila abitanti al confine di Saint Louis, è diventata una polveriera. Il perché ce lo spiega il medico legale venuto da New York, il professor Michael Baden, che su richiesta del ministro Holder e della famiglia di Brown ha fatto la terza e decisiva autopsia. «No, non c’è nessun segnale di una collutazione». Sbugiarda la versione ufficiale della polizia: Brown è stato ucciso con un tiro a segno, a distanza, non nella concitazione di una lotta corpo a corpo. Il risultato dell’autopsia infiamma di nuovo le proteste, già in crescendo durante tutto il weekend. Il governatore Jay Nixon, democratico, mobilita la Guardia Nazionale. Altro che “smilitarizzazione”, ora scende in piazza l’esercito. Nixon si giustifica: «Lo devo fare, qui ci sono dei commandos in azione, delle violenze ben coordinate, organizzate, bande venute da fuori Ferguson. Le violenze hanno colpito anche la comunità afroamericana, i loro negozi sono stati saccheggiati». La tattica sul terreno cambia, insieme con l’arrivo della National Guard il governatore decide di levare il coprifuoco ma introduce il divieto di assembramento. Obama lo critica: «La Guardia Nazionale? Non è un’idea mia. Raccomando che sia usata con prudenza».
Com’è lontana l’atmosfera di domenica pomeriggio, che ci aveva regalato l’illusione di una tregua. Quel giorno erano scesi qui a Ferguson i leader storici della comunità nera, due veterani delle battaglie per i diritti civili: Jesse Jackson e Al Sharpton. Neri e bianchi si erano riuniti nella chiesa Greater Grace. E avevano scoperto la nuova star locale: il capitano Ronald Johnson, comandante capo della Highway Patrol (la polizia stradale), promosso sul campo a guidare le forze dell’ordine per le vie di Ferguson. Johnson ha mostrato umanità e fiuto politico. Afroamericano, ha abbandonato i tank, i blindati d’assalto, le tute mimetiche e i fucili automatici, è andato in giro per le strade a parlare con la gente. La sua gente. Lo ha detto in chiesa: «Io indosso questa divisa ma vi dico che il mio cuore è con voi, vi dico che sono sconvolto dal dolore. Quel ragazzo nero, coi jeans sbracati, col berretto di traverso, con le braccia tatuate, quello è proprio come mio figlio. Michael is my baby » . Johnson è lo specchio dell’America di Obama, e per tutto il weekend è sembrato l’uomo giusto nel momento giusto, il leader capace di spegnere l’incendio. Ora invece un attivista afroamericano lo sbeffeggia sul suo blog: “Bravuomo quel Johnson, e pieno di buone intenzioni, ma già esautorato”. E non solo per l’intervento della National Guard che segna il ritorno di un approccio militare. Il dialogo avviato da Johnson è stato sabotato dalla polizia locale concorrente, la Saint Louis County Police. Proprio mentre uscivano i risultati agghiaccianti dell’autopsia, la polizia di contea continuava l’assassinio postumo di Michael Brown. Diffondendo un video dove il ragazzo è ripreso mentre rapina un tabaccaio. E poi divulgando una contro-autopsia dove il giovane nero risulta «con tracce di marijuana nel sangue». Sufficiente per giustiziarlo?
Nessuno si aspetta che si arrenda facilmente questa polizia locale del Missouri, 95% di agenti bianchi per una popolazione al 63% nera. «Ferguson era già prima una pentola a pressione – dice l’attivista di quartiere Dennis Brown (nessuna parentela con la vittima) – qui nel Missouri basta guidare un’auto essendo neri per commettere virtualmente una fattispecie di reato. E i disoccupati che vedete seduti sui marciapiedi, sono quasi tutti neri». Il cumulo di tensioni è così intenso che Ferguson diventa un caso internazionale. Il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki Moon, con un gesto inaudito chiede «alle autorità americane che garantiscano i diritti di manifestare e la libertà di espressione nel Missouri». Amnesty ha mandato una squadra di 13 osservatori per verificare eventuali violazioni dei diritti umani, dopo i ripetuti arresti che hanno colpito anche giornalisti. Nell’èra obamiana in questo angolo di America è sospeso anche il Primo Emendamento, quella diritto fondamentale di parola e di protesta che figura nella Costituzione. «Vietati gli assembramenti», sancisce il governatore Nixon. Domani dovrebbe riunirsi un Grand Jury, tribunale ad hoc che deve esaminare il ricorso dei familiari di Michael Brown. Ma qui a West Florissant Avenue, nel Ground Zero della protesta, nessuno si fida che una giuria popolare del Missouri sia equa. Tutti guardano a Washington, a Obama e Holder, che già hanno garantito l’arrivo dei “federali”, a cominciare da una contro-indagine dell’Fbi. I federali contro i segregazionisti del Sud, è un film che riporta ai tempi di Martin Luther King e John Kennedy.



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