Obama: Fermeremo il califfato di Erbil
I raid degli Stati uniti contro l’Iraq non si fermano. Se lo stato iracheno non è riuscito a far fronte all’avanzata dei jihadisti, ci pensa ora il presidente Usa Barack Obama, rispolverando la «guerra al terrorismo», inventata da George Bush jr. Dopo i disastrosi attacchi del 2003 che hanno dilaniato il paese, e il tribalismo di stato che ha riprodotto la tradizionale corruzione delle istituzioni irachene, Washington si sostituisce allo stato «fallito» per annientare gli islamisti radicali che hanno conquistato con una velocità sorprendente il Nord dell’Iraq.
Obama, in un’intervista al New York Times, ha spiegato che è stato lo spettro «del califfato» (sul modello di Bengasi) a spingerlo ad autorizzare i raid sul Nord dell’Iraq. «Non permetteremo loro di creare un califfato tra Siria e Iraq», ha ribadito. «Ma possiamo farlo solo se abbiamo alleati sul campo capaci di riempire il vuoto», ha proseguito. I leader politici iracheni sono stati fin qui incapaci di formare un governo di coalizione, dopo le elezioni anticipate di primavera. La presidenza della Repubblica è stata assegnata invece al kurdo Fuad Massum, nel luglio scorso, dal parlamento insediatosi dopo la crisi politica innescata dai jihadisti dell’Isil (Stato islamico dell’Iraq e del Levante) e il sostegno a loro assicurato dai generali sunniti vicini al vecchio regime di Saddam Hussein.
Obama ha però ribadito di non voler essere trascinato «in una nuova guerra in Iraq». «Le truppe da combattimento americane non torneranno in Iraq perché non c’è una soluzione militare americana alla crisi», ha detto il presidente Usa. Obama ha dimenticato la promessa, dimostratasi inconsistente, di lasciare nelle mani degli iracheni la sicurezza del paese. Per questo, nonostante la difesa a spada tratta degli attacchi da parte di governi e ministeri degli Esteri europei (inclusi il premier inglese David Cameron e il presidente francese François Hollande), i bombardamenti di queste ore sono in sé un fallimento delle guerre degli Stati uniti nel paese e del disastroso tentativo di transizione democratica, imposto dall’alto in Iraq. Proprio le guerre del Golfo (1990–91 e 2003) hanno forgiato ed alimentato infatti le divisioni tra sunniti e sciiti che ora spaccano il paese.
Non solo, sebbene gli attacchi dell’aviazione Usa, al via lo scorso venerdì, andranno avanti sine die, non saranno inviate invece truppe di terra. Per questo, in un video i jihadisti — che proseguono la loro avanzata verso Baghdad — hanno sfidato gli Usa ad inviare soldati al posto dei droni. In particolare, il portavoce dell’Isil, Abu Mosa ha dato agli americani dei «codardi». «Non siate vigliacchi, attaccandoci con i droni. Mandate i vostri soldati, quelli che abbiamo umiliato in Iraq», ha dichiarato l’islamista radicale.
A preoccupare la Casa bianca è in particolare la critica situazione del capoluogo kurdo di Erbil. A sostegno dei kurdi iracheni, minacciati dall’avanzata dell’Isil, che avevano conquistato la strategica diga di Mosul, era intervenuta la scorsa settimana l’aviazione di Baghdad. «In Iraq i kurdi, per settimane, sono stati capaci di proteggere le città settentrionali dove sono la maggioranza della popolazione», ha spiegato al manifesto Harriet Allsopp, docente dell’Università di Londra (Birkbeck). «Tuttavia, fin qui l’accordo con al-Maliki (premier sciita, ndr) non è servito per fronteggiare l’avanzata jihadista. Eppure i kurdi iracheni temono che l’attuale crisi non finisca e che lo scontro tra sunniti e sciiti possa degenerare. Per questo sono pronti a sforzi ulteriori per mantenere in sicurezza la regione kurda. Sono ora pronti per l’indipendenza, soprattutto economica, e devono fronteggiare la possibilità di dover controllare questa regione senza un governo a Baghdad. Per esempio sono capaci di continuare ad esportare petrolio autonomamente», ha aggiunto Allsopp.
L’esportazione di petrolio dal Kurdistan iracheno non ha subito danni apparenti dall’avanzata jihadista e i kurdi hanno assicurato continuità alle attività di estrazione di petrolio nella regione. Sono centinaia poi i civili kurdi che hanno deciso di unirsi ai combattenti kurdi peshmerga per difendere le proprie terre dall’avanzata jihadista. Molti dei volontari sono però disarmati e operano come medici per curare i feriti o per portare cibo, acqua e munizioni ai combattenti. «In realtà, il governo sciita di al-Maliki ha sempre marginalizzato le aree kurde e sunnite. Con l’attacco a Kirkuk, della scorsa primavera, gli sciiti hanno chiesto ai kurdi di mettere in sicurezza i giacimenti di petrolio di Kirkuk. I kurdi lo hanno fatto ma potrebbero non lasciarli. L’obiettivo è sempre la difesa della regione kurda prima che la cooptazione dei kurdi nell’esercito iracheno regolare», ha concluso Allsopp.
Anche la Royal Air Force britannica ha inviato un aereo militare con aiuti umanitari in Iraq. Tra i destinatari degli aiuti ci sarebbero in particolare i profughi yazidi, rifugiatisi sulle montagne attorno a Sinjar, per sfuggire ai miliziani islamisti dell’Isil. Sono 200mila gli iracheni, inclusi migliaia di cristiani, che hanno lasciato il paese dall’inizio dell’avanzata jihadista.
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