La democrazia per caso
PER definire il disegno di riforma istituzionale avviato dal governo, si parla apertamente di deriva autoritaria. O di attentato golpista alla Costituzione. Mentre Matteo Renzi viene, per questo, descritto come un Pinochet. Un
Piccolo Dittatore.
PIÙ ridicolo, seppure (forse) meno pericoloso della rappresentazione — geniale — proposta da Chaplin, in altri tempi. Per tracciare la parabola — tragica — del Grande Dittatore. Più mediocremente, a Renzi viene imputato di avere progressivamente svuotato le istituzioni della democrazia rappresentativa, in particolare il Parlamento. Fino al punto di neutralizzarne un ramo: il Senato. Dove è sempre stato difficile disporre di maggioranze stabili. Renzi, d’altronde, è accusato di insofferenza verso ogni mediazione. Verso i partiti e i corpi intermedi. Sindacato e organizzazioni degli imprenditori, in primo luogo. E verso ogni controllo, si tratti di tecnici oppure di magistrati.
D’altra parte, Renzi ha ri-assunto in sé i ruoli di capo del governo e del partito di maggioranza. Al tempo stesso, ha piegato il Pd a propria misura e immagine. Lo ha trasformato nel PdR, il Partito Democratico di Renzi. O, più semplicemente, il Partito di Renzi. In Parlamento, governa con una maggioranza variabile. A cui partecipano Ncd, i Centristi. Ma anche Fi. Dipende dagli argomenti. E, a seconda degli argomenti, appunto, deve affrontare l’opposizione, di Sel, della Lega, ma anche di Fi e — in modo non sempre palese — di componenti del Pd. Mentre diffida, per principio, della concertazione con le organizzazioni di rappresentanza degli interessi. Quanto al governo, si affida ai più fidati e fedeli (si scusi il bisticcio di parole). E per quel che riguarda i tecnici, se rallentano la marcia del governo e del suo Capo, vengono rimossi. Come, in questi giorni, Cottarelli, responsabile della spending review. Insomma, Renzi starebbe conducendo il Paese lungo una china autoritaria.
Il mio dubbio, di fronte a queste accuse, non è che siano infondate, ma fuori tempo e fuori luogo. Perché fanno riferimento a tendenze che Renzi non ha “inventato”. Semmai, assecondato. In parte: accelerato. Per convenienza. Perché si tratta di storie vecchie. Scritte da tempo. Senza troppo scandalo e, anzi, nell’indifferenza.
La personalizzazione della politica e dei partiti. È in atto dagli anni Ottanta. Interpretata da Craxi. E, in modo diverso, anche da Berlinguer. Ma ha conosciuto una forte accentuazione negli anni Novanta. Assieme alla fine della Prima Repubblica, fondata sui partiti (di massa). Allora si è sviluppato il rapporto diretto fra cittadini e leader. Soprattutto dopo la “discesa in campo” di Berlusconi. Che ha usato le (proprie) televisioni come canale di partecipazione e di consenso. Gli altri partiti si sono adeguati. O hanno cercato di farlo. Con maggiore o minore successo. Si è aperta così l’era dei “partiti personali”, la cui identità ed esistenza coincidono con quella del Capo. Sorti e scomparsi, oppure ridimensionati, insieme ai loro leader. Senza un leader capace di comunicare con gli elettori in modo “diretto”, è divenuto pressoché impossibile vincere le elezioni. Per questo il Centrosinistra, da ultimo il Pd, erede dei partiti di massa, ha sempre stentato ad affermarsi. E, ancor più, a durare. Fino all’arrivo di Renzi, appunto.
La stessa — contestata — mutazione “genetica” delle istituzioni democratiche ha origini lontane. Anche in questo caso, è dagli anni Novanta che si assiste alla progressiva presidenzializzazione dei governi, peraltro coerente con quanto avviene altrove in Europa (come ha sottolineato una ricerca di Poguntke e Webb). Da allora, infatti, tutti i capi dei governi territoriali sono eletti “direttamente”. Non solo i Sindaci, ma anche i Presidenti di Provincia e di Regione, rispondono direttamente ai cittadini. Allo stesso tempo, il peso politico dei Presidenti del Consiglio è aumentato, coerentemente con il loro legame “diretto” con i cittadini. Sottolineato dalla tendenza, consolidata, ad associare le coalizioni al candidato premier. Il cui nome è accostato al simbolo del partito, nelle stesse schede elettorali. Una consuetudine denunciata, da anni, da Giovanni Sartori come incostituzionale. Perché aggira le logiche della nostra democrazia. Parlamentare. Peraltro, anche il Presidente della Repubblica ha assunto un ruolo ben diverso da quel che eravamo abituati. Da Cossiga a Scalfaro, da Ciampi a Napolitano è divenuto un protagonista delle vicende politiche e istituzionali.
Infine, la concertazione. Il ridimensionamento del negoziato con i gruppi di interesse. Si era affermata negli anni Novanta, non a caso, nel vuoto politico e di governo lasciato dal crollo della Prima Repubblica. Ma, al tempo stesso, ha sottratto competenze e responsabilità alla politica e ai suoi attori. Oggi, però, i sindacati e le stesse associazioni imprenditoriali rappresentano sempre meno il mercato del lavoro. I sindacati: hanno una base composta perlopiù da pensionati e da impiegati pubblici. Mentre molti imprenditori si rappresentano da soli. E le loro organizzazioni si sono frammentate. Come il mercato.
Così, nel corso degli anni, l’Italia ha cambiato forma istituzionale e costituzionale. A metà fra presidenzialismo e premierato. Fra accentramento e federalismo. Senza disegni né riforme di sistema. Di fatto. Inseguendo emergenze continue e in-finite. Reagendo a spinte particolari e faziose. Chi accusa Renzi, oggi, di stravolgere la Costituzione dimentica, dunque, che ciò è già avvenuto. Da tempo. Almeno da vent’anni. E da vent’anni siamo divenuti una Repubblica “preterintenzionale”. Dove vige una democrazia ibrida, a metà fra personalizzazione ultrà e partecipazione diretta. Fra leaderismo e rete. Fra Tv e Web. A Renzi, semmai, si dovrebbe imputare di non avere inventato nulla. E di non avere l’intenzione di farlo. Cioè, di non essere interessato tanto a dare senso al caos, pardon, al “caso” istituzionale, che (s) regola il Paese. Ma, semmai, di assecondarlo. Selettivamente. Accentuando e rafforzando gli aspetti più coerenti con i suoi interessi. E con la sua vocazione di Leader del PdR. Alla guida di un governo personale e di una democrazia per caso.
Per andare oltre, ci vorrebbe un progetto coerente, elaborato e discusso in un’assemblea costituente. Eletta dai cittadini, visto che le Bicamerali hanno sempre prodotto esiti improduttivi. (E poi, se il Senato perdesse gli attuali poteri, che Bicamerale sarebbe?). Ma, per procedere in questa direzione, ci vorrebbero tempo e con-divisione. In tempi veloci e divisi — o meglio, frantumati — come questi, non riesco a sperarci.
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