Autobomba al bazar di Paktika, 89 morti in Afghanistan

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Almeno 89 morti, doz­zine di ferite, fami­glie distrutte, corpi insan­gui­nati nei giorni del Rama­dan, la più impor­tante festi­vità isla­mica. L’attentato sui­cida avve­nuto ieri nella pro­vin­cia orien­tale afghana di Pak­tika è uno dei più san­gui­nosi della sto­ria recente di un paese già troppo mar­to­riato. Il metodo usato rien­tra nella tra­gica, ormai clas­sica, casi­stica locale: un’autovettura spor­tiva Toyota imbot­tita di esplo­sivo e lan­ciata con­tro il bazar prin­ci­pale del distretto di Urgun, tra i più vitali fino a ieri mat­tina, ora sim­bolo di una guerra stu­pida che non vuole finire, nono­stante le novità poli­ti­che degli ultimi giorni e l’intesa ritro­vata (per ora) tra i due can­di­dati alla pre­si­denza, Ash­raf Ghani e Abdul­lah Abdullah.

Il numero dei morti pro­vo­cati dall’attentato è prov­vi­so­rio: un cen­ti­naio di feriti, tra cui molti in gravi con­di­zioni, sono rico­ve­rati nelle cli­ni­che pro­vin­ciali, qual­cuno (sem­bra 9) in quello di Emer­gency a Kabul, men­tre i sol­dati dell’esercito afgano con­ti­nuano a sca­vare tra le mace­rie. Si tratta di un bilan­cio gra­vis­simo, che riguarda esclu­si­va­mente le vit­time civili: com­mer­cianti, donne e bam­bini, fre­quen­ta­tori inno­centi di un luogo che non era un obiet­tivo sen­si­bile né stra­te­gico. I Tale­bani, pre­ve­di­bil­mente, non solo non hanno riven­di­cato l’attentato, ma se ne sono tirati fuori nel modo più netto pos­si­bile: «annun­ciamo chia­ra­mente che non è stato com­piuto dai muja­hed­din dell’Emirato isla­mico d’Afghanistan», ha dichia­rato uno dei por­ta­voce dei «tur­banti neri», Zabi­hul­lah Muja­hid, alla Reu­ters. Sulla pater­nità, si acca­val­lano le inter­pre­ta­zioni: c’è chi sostiene che l’obiettivo dell’attentatore fosse un altro, e che la mac­china imbot­tita di esplo­sivo sia finita per sba­glio nell’affollato bazar; c’è invece chi punta il dito verso espo­nenti dei gruppi di insorti che pro­ven­gono dall’altro lato del con­fine, dal Paki­stan, come il cosid­detto net­work Haq­qani (Miran Shah Shura). Si tratta di un gruppo auto­nomo sul piano finan­zia­rio e ope­ra­tivo rispetto ai Tale­bani, ma non su quello poli­tico, al quale si attri­bui­scono alcuni dei più effe­rati atten­tati degli ultimi anni, e che pro­prio nella pro­vin­cia di Pak­tika, al con­fine con la regione paki­stana del Wazi­ri­stan, aveva già com­piuto atten­tati simili. Per ora rimane dif­fi­cile attri­buire la pater­nità dell’atto ter­ro­ri­stico, men­tre i Tale­bani hanno riven­di­cato senza esi­ta­zioni l’uccisione di due mem­bri dello staff del pre­si­dente uscente Kar­zai, avve­nuta pro­prio ieri a Kabul.

A Kabul intanto la poli­tica con­ti­nua a tenere banco, e molti si chie­dono cosa signi­fi­chi quel governo di unità nazio­nale di cui ha par­lato pochi giorni fa, nella capi­tale afghana, Kerry. Dopo due giorni di ani­mate con­sul­ta­zioni con i can­di­dati alla pre­si­denza, il segre­ta­rio di Stato Usa è infatti riu­scito a tro­vare (qual­cuno dice imporre) l’intesa tra Ghani e Abdul­lah, i due can­di­dati che non si par­la­vano dal 14 giu­gno, giorno del bal­lot­tag­gio. Abdul­lah – temendo di aver perso — gri­dava alle frodi con­tro di lui, Ghani – con­vinto di aver vinto — auspi­cava l’annuncio dei risul­tati. Quando la matassa si è fatta com­pli­cata, con alcuni soste­ni­tori di Abdul­lah che chie­de­vano la for­ma­zione di un governo paral­lelo, è sceso in campo l’alleato-occupante ame­ri­cano. Kerry è arri­vato a Kabul e ha tro­vato la qua­dra­tura del cer­chio: ricon­teg­gio totale degli 8 milioni di voti e, poi, for­ma­zione di un governo di unità nazio­nale. Tutti d’accordo, pare, a dispetto della pes­sima figura fatta dagli afghani, che ancora una volta hanno dimo­strato di non potere e non saper eser­ci­tare la sovra­nità in casa propria.

Tutto bene, dun­que? No, per­ché nes­suno sem­bra avere le idee chiare sul governo di unità nazio­nale: divi­sione del potere a metà? Inclu­sione in posti chiave dell’amministrazione di espo­nenti del secondo arri­vato? Oppure l’introduzione della figura – finora non pre­vi­sta dalla Costi­tu­zione – di un primo mini­stro, che affian­chi il pre­si­dente? Ogni inter­lo­cu­tore sem­bra pen­sarla a suo modo. Quel che importa, dicono gli osser­va­tori inter­na­zio­nali, è che sia stata scon­giu­rato il rischio di una guerra civile, che vedesse con­trap­po­sto il «nord» tagiko pro-Abdullah al sud e sud-est pash­tun pro-Ghani. I due sanno che, qua­lun­que forma assu­merà il governo di unità nazio­nale, dovranno lavo­rare a stretto con­tatto. E per­fino Kar­zai, si è pie­gato: la ceri­mo­nia di inse­dia­mento del suo suc­ces­sore non si terrà più il 2 ago­sto, come pre­vi­sto, ma dopo qual­che set­ti­mana. Quando l’esito delle ele­zioni sarà cer­ti­fi­cato dagli osser­va­tori stra­nieri. Un brutto finale di par­tita, per l’ex sin­daco di Kabul.



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È lì che ho saputo della morte dell’ambasciatore americano a Bengasi. Me l’ha comunicato il giornale attraverso il cellulare. Ho subito dato la notizia ai miei interlocutori, una ventina di guerriglieri appartenenti al «Battaglione dell’Unità  nazionale », uno dei tanti gruppi in guerra contro il regime di Bashar el Assad. Il pezzo di Siria che quei ribelli, attendati in un bosco, hanno finora “liberato” in più di un anno, come dicono, non deve superare qualche chilometro quadrato, a giudicare dalla vicinanza delle postazioni dei soldati lealisti che potevo vedere a occhio nudo.

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