Se uno su dieci diventa povero

Se uno su dieci diventa povero

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CON la pubblicazione ieri da parte dell’Istat dei dati sulla povertà nel 2013, cominciamo ad avere un quadro abbastanza completo di cosa è successo alla distribuzione dei redditi in Italia in questa interminabile crisi. Bene chiarire subito che è stato uno shock senza precedenti nella storia repubblicana.
IL reddito medio è calato in sei anni del 13 per cento, riportandosi ai livelli di un quarto di secolo fa. Per ritrovare un potere d’acquisto medio comparabile dobbiamo risalire al 1988, per capirci l’anno del disgelo fra Stati Uniti e Unione Sovietica, con la visita di Ronald Reagan a Gorbaciov nel freddo inverno moscovita. Bene che i politici e coloro che fanno informazione si ricordino di questo meno 13% nel commentare le prese di posizione delle rappresentanze di interessi che lamentano il calo dei redditi delle categorie da loro rappresentate. Nelle ultime settimane, ad esempio, abbiamo assistito ad un florilegio di comunicati che lamentavano il crollo dei redditi dei pensionati proprio mentre partiva la campagna di Cgil-Cisl-Uil per estendere ai pensionati il bonus di 80 euro del governo Renzi. Ma anche i dati più allarmanti (quelli rilasciati da Confersercenti) segnalavano un calo dei redditi dei pensionati inferiore al 10 per cento, quindi ben al di sotto di quello vissuto dall’italiano medio in questo periodo. Se poi si guardano i dati dell’Istat, ci si rende conto che quello dei pensionati è l’unico gruppo sociale i cui redditi siano addirittura aumentati almeno durante la prima parte della crisi, nella Grande Recessione del 2007-9, e come la fascia di età al di sopra dei 65 anni sia l’unica in cui la povertà non è aumentata in questi lunghi anni di crisi.
La cosa forse più sorprendente che si impara leggendo le statistiche (lo fa in dettaglio Andrea Brandolini su lavoce.info) è il fatto che in Italia, a differenza che in molti altri paesi, le disuguaglianze non sono aumentate, se non marginalmente, durante la crisi. C’è stato come uno spostamento verso il basso dell’intera distribuzione dei redditi, senza che le forti disuguaglianze che la caratterizzavano in partenza siano sensibilmente aumentate. Non ci sono oggi ragioni in più di quelle che c’erano prima della crisi per preoccuparsi di queste disuguaglianze. Ce ne sono invece molte di più per preoccuparsi della povertà assoluta, delle persone che vivono al di sotto di standard di vita decorosi, raddoppiate in sei anni, passando da meno di 3 milioni a più di 6 milioni. Lo ha certificato ieri l’Istat sulla base di dati sulla spesa delle famiglie, peraltro in coerenza con i dati sui redditi del rapporto Caritas, già discusso su queste colonne sabato da Chiara Saraceno.
Un altro luogo comune che viene fortemente messo in discussione da queste statistiche è quello sul ridimensionamento della cosiddetta classe media. Non c’è stata una polarizzazione dei redditi, con uno schiacciamento di chi sta in mezzo. Nel calo generalizzato dei redditi, la quota di reddito nazionale del 60 per cento di persone che hanno redditi superiori a quelli del 20 per cento più povero e inferiori a quelli del 20 per cento più ricco della popolazione, è rimasta praticamente invariata dal 1985 ad oggi. C’è stato addirittura un incremento della percentuale di persone che appartengono alla classe media, definita come persone che guadagnano meno del doppio e più di tre quarti di chi si posiziona esattamente a metà nella distribuzione dei redditi. Questo perché non pochi fra quanti erano inizialmente nelle parti alte della distribuzione sono scesi al di sotto del 200 per cento del reddito mediano, finendo così per approdare nella cosiddetta middle class. Questa al contempo ha perso famiglie che dalla classe media sono scivolate in condizioni di povertà.
Questi dati sono molto importanti per capire i problemi distributivi che stanno di fronte alla politica economica in Italia. Nel declino economico generalizzato del nostro paese e nelle due pesanti recessioni che abbiamo attraversato sembra esserci stato un arretramento complessivo, in cui tutti i decili della distribuzione del reddito hanno subito un peggioramento assoluto. L’Italia è un paese in cui i problemi distributivi sono al contempo sempre più marcati e sempre più difficili da risolvere perché anche chi potrebbe “dare di più” ha già assistito ad una erosione del proprio reddito e, dunque, in qualche misura si sente di avere già dato. È davvero il momento di preoccuparsi per la prima volta in Italia dei più poveri, degli ultimi degli ultimi, ignorati anche dai bonus di Renzi, che ha escluso i cosiddetti incapienti e i disoccupati. Bisogna offrire protezione di base anche a chi ha meno di 65 anni. Bene che chi ci governa sia consapevole del fatto che è illusorio pensare di costruirsi le proprie fortune elettorali con trasferimenti alla classe media. Oggi la classe media è troppo numerosa (si tratta di più di 34 milioni di persone) per i nostri vincoli di bilancio: nessun governo potrà mai attuare trasferimenti (o riduzioni di tasse) sufficientemente grandi per essere percepiti da chi appartiene alla middle class. Mentre la costruzione di un efficace paracadute contro la povertà per tutti costerebbe molto meno e verrebbe apprezzata anche dall’elettore medio. La lezione della crisi è infatti che anche chi ha redditi a metà tra i più ricchi e i più poveri rischia di precipitare nell’indigenza. È una lezione che conoscono molto bene le famiglie con figli minori: ne bastano due per avere un rischio di povertà doppio rispetto a quello dell’italiano medio. Ne sono perfettamente consapevoli anche gli elettori mediani, coloro che, appena al di sopra dei 50 anni, sono al contempo troppo giovani per la pensione e troppo vecchi per essere riassunti in caso di perdita del lavoro, per colpa di istituzioni, di regole contrattuali e regimi di contrattazione salariale, che ci ostiniamo a non voler riformare.



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