Iraq, Obama invia truppe speciali
WASHINGTON — Consiglieri militari. Una soluzione che ricorda il Vietnam. Ma è quella scelta, per ora, da Barack Obama. Trecento membri delle forze speciali che assisteranno gli iracheni contro i ribelli sunniti. Dunque quegli «uomini sul terreno» che la Casa Bianca aveva escluso di mandare. E’ vero che i soldati, come ha promesso il presidente «non tornano in Iraq per combattere», ma rimettono piede comunque in un conflitto che la Casa Bianca aveva considerato chiuso.
È stato lo stesso Obama a spiegare il piano dopo un consulto con il suo team: 1) Protezione dell’ambasciata a Bagdad con i 275 marines. 2) Aumento dell’intelligence. 3) Supporto all’Iraq con la creazione di due centri operativi, uno nella capitale e l’altro nel Nord. 4) Invio dei 300 «specialisti» con la promessa che non parteciperanno ai combattimenti. 5) Possibili «azioni mirate», da affidare ad aerei e droni, «se» e «quando» saranno necessari. 6) Pressione per ottenere una nuova politica in Iraq, capace di ridurre i contrasti tra sunniti, sciiti e curdi. 7) Missione diplomatica del segretario di Stato Kerry.
La strategia americana dunque cammina lungo un doppio sentiero partendo dal principio che «non esiste soluzione militare». Ed ecco il vero target. A Washington sarebbero felici se il primo ministro iracheno al Maliki, considerato il responsabile di una linea settaria, si facesse da parte. Obama, su questo punto, ha fatto l’elegante: «Non è compito degli Usa» scegliere i governi. In realtà tutti sanno che considera al Maliki uno dei problemi e vorrebbe che ci fosse un altro al suo posto. Il premier non è di questa idea ed ha puntato i piedi. I diplomatici statunitensi hanno contro-manovrato. Si racconta di contatti con un alto esponente sunnita, Usama Nujaifi, con i curdi ed una vecchia conoscenza sciita, Ahmed Chalabi, personaggio con ambizioni ma anche un passato nebuloso. Uomo degli Usa prima dell’invasione del 2003, è stato sospettato di essere troppo vicino agli iraniani.
Toccherà a John Kerry condurre i sondaggi con un viaggio nella regione entro un paio di giorni. Allargando la maggioranza a Bagdad si può aprire un dialogo che coinvolga i sunniti moderati e isoli gli estremisti dell’Isis. Un piano dove coinvolgere anche quei Paesi del Golfo, dall’Arabia al Qatar, per nulla disposti a lasciare campo agli sciiti. Washington conta inoltre sulla sponda dell’Iran, il padrino sciita. Il presidente non ha nascosto l’esistenza di «contrasti profondi», ha sottolineato l’appoggio dei mullah al siriano Assad, però si è augurato un atteggiamento «costruttivo», con iniziative che non esasperino i contrasti. Un riferimento al ruolo dei pasdaran che agiscono al fianco dei governativi iracheni.
L’altro sentiero battuto da Obama è quello militare. I 300 «consiglieri» saranno gli occhi sul teatro, indispensabili per guidare eventuali raid aerei. Fonti ufficiose aggiungono che le incursioni non sarebbero limitate all’Iraq ma potrebbero includere anche la Siria, dove l’Isis ha uomini e basi. I militari Usa, inoltre, agiranno nei centri di coordinamento. Un aspetto non da poco. Di fatto gli americani partecipano alle operazioni. Defilati quanto si vuole, ma sono lì. Come sono già nei cieli iracheni i ricognitori. Il rischio che le unità americane possano essere risucchiate nella guerra civile esiste. Con il tempo la Casa Bianca potrebbe scoprire poi che il team non basta. Ne manderà altri? Senza contare che i commandos agiranno vicino a reparti sciiti a volte inquadrati dagli iraniani.
Considerazioni bilanciate dal timore che il fronte sunnita guidato dall’Isis metta a segno nuovi colpi. Ieri gli insorti hanno occupato al Muthanna, il centro dove al tempo di Saddam si producevano armi chimiche. Sembra che non ve ne siano più, ma il solo nome preoccupa.
Guido Olimpio
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