Sel, il lento addio

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Accetto le tue dimis­sioni». La crisi di Sel è un vor­tice a spire lar­ghe che gira da mesi ma che da ieri pre­ci­pita a velo­cità infer­nale. Verso il suo cen­tro, che però è un buco nero. La crisi si uffi­cia­lizza alle cin­que del pome­rig­gio con il discorso più breve della sto­ria poli­tica di Nichi Ven­dola. Gen­naro Migliore ha ras­se­gnato le dimis­sioni da capo­gruppo dei depu­tati mar­tedì notte, nel corso di un ruvido con­fronto sul decreto Irpef. Alla fine la sua pro­po­sta, votare sì, passa a mag­gio­ranza, 17 a 15.

Durante la discus­sione da Bari arriva l’sms pre­si­den­ziale («solo un con­si­glio», dirà poi): dice «asten­sione», una «pro­po­sta di media­zione» per un gruppo «spac­cato a metà come una mela». È l’ulteriore, l’ennesimo, forse l’ultimo ponte fra le due anime del gruppo diri­gente di Sel: una che vuole aprire una linea di dia­logo con il governo Renzi, l’altra che tenta di rico­struire una sini­stra «auto­noma» guar­dando alla lista Tsi­pras, nono­stante tutto. Migliore a quel punto ras­se­gna le «dimis­sioni irre­vo­ca­bili, per essere libero di soste­nere la mia posi­zione». Il dis­senso con Ven­dola è netto. Le sfu­ma­ture sono tante, ma chi vuole aste­nersi sot­to­li­nea il pastic­cio con­te­nuto nel decreto, chi vuole votare sì non accetta di andare con­tro un prov­ve­di­mento popo­lare, che ha comun­que distri­buito un po’ di soldi a milioni. A cui anche il fiom­mi­sta Lan­dini ha dato un mezzo credito.

La mat­tina dopo, siamo a ieri, in aula, è Titti Di Salvo a pro­nun­ciare la dichia­ra­zione di voto. Il gruppo si alli­nea al sì, solo i due indi­pen­denti Giu­lio Mar­con e Gior­gio Airaudo annun­ciano l’astensione. Ven­dola arriva alla camera, la sua pre­senza già dice bur­ra­sca. Accanto a lui si mate­ria­lizza anche Mas­si­mi­liano Sme­ri­glio, vice di Zin­ga­retti alla regione Lazio e ultrà dell’operazione Tsi­pras. «Ma nes­suno può accu­sarmi di non dia­lo­gare con il Pd», attacca. Ven­dola discute a lungo con Pippo Civati, poi con Gianni Cuperlo. C’è in ballo un’iniziativa con­giunta per far vedere che in ogni caso Sel non si chiu­derà nelle ridotte della sini­stra radi­cale. In aula Mar­con alza il velo del tinello di Sel e mostra lo stato di fami­glia. Si astiene: «Una scelta per­so­nale ma che inter­preta la con­vin­zione di quasi metà del gruppo», dice, «votare a favore signi­fica dire sì ai posi­tivi 80 euro ma anche alla poli­tica eco­no­mica di Renzi ancora subal­terna all’austerità. Nes­suno si sogni di uti­liz­zare que­sto dl per cam­biare que­sto orien­ta­mento». Ce l’ha con Migliore e com­pa­gnia. Ven­dola, il viso tirato, lo guarda sullo schermo del Tran­sa­tlan­tico e mor­mora un «bravo». «Sel non si acco­mo­derà nel cono d’ombra del Pd».

Di qui all’accettazione delle dimis­sioni di Migliore ci sono due ore con­vulse di incon­tri e ripen­sa­menti. Le dimis­sioni aprono uffi­cial­mente la crisi in Sel. Due depu­tati ’filo-pd’ (Aiello e Rago­sta) sono già pas­sati nei ban­chi dei dem. Fra i ’miglio­ri­sti’ ci sono ancora molte titu­banze. Il capo­gruppo incon­tra Nicola Fra­to­ianni, amico di sem­pre, anta­go­ni­sta di oggi. Ven­dola è con loro, cerca ancora una media­zione. A un certo punto i tre si pas­sano un Ipad acceso su una dichia­ra­zione di Pier­luigi Ber­sani, l’uomo del governo ’di cam­bia­mento’, un bel sogno ormai alle spalle. Dice Ber­sani: «Il per­corso di avvi­ci­na­mento tra Sel e Pd è maturo, mi auguro che avvenga in modo ordi­nato e poli­tico», no a «improv­vi­sa­zioni, per­so­na­li­smi, oppor­tu­ni­smi». È un gesto gene­roso, un altro dell’ex lea­der. Fra­to­ianni e Ven­dola la leg­gono come un invito a evi­tare la dia­spora alla spicciolata.

Ma nel pome­rig­gio la riu­nione dei depu­tati dura una man­ciata di minuti. Ven­dola sta­volta sce­glie: non lan­cia ponti. «Avete colto l’occasione per spac­care la linea poli­tica del par­tito», dice, all’indirizzo di Migliore. Poi accetta le dimis­sioni e annun­cia che la segre­te­ria di oggi affron­terà il caso.

Ma è un caso già chiuso. O comun­que lo diventa quando il gover­na­tore torna in Tran­sa­tlan­tico dai cro­ni­sti. «Migliore ha ras­se­gnato le dimis­sioni con grande cor­ret­tezza, con grande one­stà intel­let­tuale, per­ché non è stato in grado di cucire la tela di una sin­tesi nel gruppo». L’accusa però è quella di non rispet­tare la linea. Ven­dola si sforza di dire che «la dif­fe­renza è ric­chezza» ma sferza: «Il luogo che ha il potere di deci­dere sulla linea di un par­tito è il con­gresso e un gruppo par­la­men­tare non può essere in alcun modo un impe­di­mento a que­sta linea». L’accusa è pesante. E c’è di più: «La dif­fe­renza tra essere ren­ziani e non ren­ziani è esat­ta­mente quella che passa tra com­bat­tere ed arrendersi».

Nell’assemblea di sabato scorso Ven­dola aveva invi­tato i gruppi a discu­tere «con lai­cità» del decreto Irpef. Oggi invece Ven­dola si arrende alla con­sta­ta­zione che «la vicenda del nostro dibat­tito interno è stata letta come una divi­sione tra filo-renziani e anti-renziani. E Sel, nono­stante il fascino che i vin­ci­tori hanno, non può dichia­rarsi filo-renziana». È carta vetrata per i ’miglio­ri­sti’, un nucleo di una decina di per­sone intorno a cui si muove una costel­la­zione di posi­zioni diverse che ora rischia di com­pat­tarsi con effetti deva­stanti sul gruppo. Cir­co­lano numeri: due depu­tati e un sena­tore pronti a pas­sare con il Pd. Numeri pic­coli, ma cre­sce­ranno. «Ci vogliono cac­ciare?, non hanno voluto discu­tere», esplode Michele Piras. «La mia casa è Sel, non voglio andare nel Pd, ma voglio rico­struire il cen­tro­si­ni­stra», spiega Ste­fano Qua­ranta. E Gianni Melilla: «Vengo dal gruppo del mani­fe­sto. Nichi mi dica: vogliono radiarci?».

Dal Pd arriva il segnale pub­blico che non era mai arri­vato. Lo lan­cia Gra­ziano Del­rio, fra i più alti in grado dei ren­ziani: i par­la­men­tari che appog­giano le misure del governo «sono ben­ve­nuti, non andiamo a cac­cia di par­la­men­tari ma abbiamo biso­gno di un ese­cu­tivo forte. Chi vuole entrare nel Pd lo fac­cia, è cam­biato il par­tito, si è con­cre­tiz­zato il par­tito leg­gero, è diven­tato una casa aperta».



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