Lavorare manca. La crisi e lo show

Lavorare manca. La crisi e lo show

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Fab­bri­che por­tate all’estero, o che pas­sano con­ti­nua­mente di mano, in attesa di un acqui­rente, fab­bri­che chiuse per sem­pre, occu­pate e auto­ge­stite. Nell’epoca del capi­tale «libero, astratto e solo» non sol­tanto non sono più garan­titi i posti di lavoro, ma nem­meno gli sta­bi­li­menti, com­presi quelli sto­rici che, fino a uno o due decenni fa, erano una tetra­gona cer­tezza. In Lavorare manca (Einaudi, pp.213, euro 19), Gio­vanna Bour­sier e Gabriele Polo rac­con­tano, attra­verso otto casi emble­ma­tici, azien­dali o di distretto pro­dut­tivo, l’ultimo tratto di sto­ria del capi­ta­li­smo ita­liano, «peri­co­loso per sé e per gli altri».
Lo fanno dando voce diret­ta­mente agli ope­rai (di qui il sot­to­ti­tolo del libro «La crisi vista dal basso»), spesso uni­che vit­time dei gio­chi di quella finanza che ormai cono­sciamo troppo bene e che se ne infi­schia com­ple­ta­mente della pro­du­zione, rico­no­scendo al limite solo il mar­chio, o meglio, come si suole dire oggi, il «brand». Sono voci man­te­nute ano­nime dagli autori, non per l’esigenza di «pro­teg­gere» la fonte, ma per­ché ognuno parla a nome di tutti i com­pa­gni, coin­volti allo stesso modo nella mede­sima espe­rienza di dismis­sione e disoc­cu­pa­zione, di ridi­men­sio­na­mento azien­dale o, nei casi che si pos­sono con­si­de­rare, mal­grado tutto, a lieto fine, come quelli della Innse e della Maflow, di riscatto.
Prima di tutto, que­ste sto­rie, che toc­cano Torino, Milano e Ber­gamo, la Roma­gna e la Valle Ufita, il Sul­cis e Mon­fal­cone, rac­con­tano quanto il lavoro sia duro. Da anni si sostiene che la classe ope­raia non esi­sta più, ma la descri­zione delle man­sioni, se lavori in una fab­brica di auto­mo­bili o divani, oppure sei occu­pato in un can­tiere o den­tro una miniera, è già di per sé un rac­conto di classe: «I pezzi di car­pen­te­ria arri­vano grezzi – rac­conta un ope­raio metal­mec­ca­nico – i tec­nici pre­pa­rano un pro­gramma di lavoro che viene messo sulle mac­chine e l’operatore in base al pro­gramma ese­gue. L’abilità sta nel sapere come piaz­zare i pezzi, come mon­tarli sulle mac­chine che tra­pano, fre­sano, tor­ni­scono (…) per­ché la tol­le­ranza di errore su pezzi grandi decine di metri è di un cen­te­simo di mil­li­me­tro, dieci volte meno dello spes­sore di un capello». Oppure: «Il divano va avanti – spiega una lavo­ra­trice – si ferma, riparte, si riferma e chi lavora lo segue fino alla fine del mon­tag­gio. Il tutto dai cin­que ai sette minuti, a seconda della gran­dezza di quel divano. Che va alzato, spo­stato, seguendo la luce rossa che lam­peg­gia e che dice quando non si dovrebbe lavorare per­ché la catena è in movi­mento. Ma il tempo non è mai abba­stanza e, per recu­pe­rare, biso­gna lavo­rare anche cam­mi­nando».
Le sto­rie rac­colte da Polo e Bour­sier rac­con­tano non solo lo stress da lavoro, ma anche quello per man­te­nerlo, le pre­oc­cu­pa­zioni fami­liari, un’angoscia che è pub­blica, ma soprat­tutto pri­vata. E, dun­que, nar­rano quell’inventarsi ini­zia­tive sem­pre più cla­mo­rose per richia­mare l’attenzione dei poli­tici e dell’opinione pub­blica, ad esem­pio salendo su una cimi­niera, sul tetto della fab­brica o, come quei quat­tro ope­rai della Innse e il sin­da­ca­li­sta Fiom, per otto giorni sul car­ro­ponte, minac­ciando di but­tarsi giù se la fab­brica fosse stata sman­tel­lata.
Qual­cuno, al costo di un sacri­fi­cio aggiun­tivo, con­qui­sta le prime pagine dei gior­nali e le tele­ca­mere dei cosid­detti talk show. Primi tra tutti i mina­tori del Sul­cis: «Adesso che siamo tutti fuori, diretti e indotto, con lo sta­bi­li­mento fermo – dice un lavo­ra­tore Alcoa – è penoso pen­sare a tutti i giorni in cui, entrando qui den­tro, con il car­tel­lino tim­bravi anche il rischio di un pez­zetto di tumore, qui di tre volte supe­riore alla media regio­nale». Ma anche le lavo­ra­trici della ex Omsa, che per 55 giorni, nel gennaio-febbraio del 2010, occu­pa­rono i can­celli della nota fab­brica di calze, come gli ope­rai della Fiat trent’anni prima, per impe­dire che il padrone Nerino Grassi spo­stasse la pro­du­zione in Ser­bia: «Lì era­vamo in 350 a mobi­li­tarci, tutte si davano da fare, ci aiu­ta­vano i cit­ta­dini di Faenza e anche gente da fuori. In quei giorni tutti veni­vano davanti all’Omsa, poli­tici e sin­da­ca­li­sti, anche per­ché c’erano le ele­zioni in arrivo».
Le fab­bri­che cam­biano, ma le forme di lotta, ine­vi­ta­bil­mente, sono sem­pre le stesse.



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