PUBBLICA AMMINISTRAZIONE, I NODI RIMASTI APERTI
OGGI il Governo Renzi dovrebbe varare la sua prima vera riforma, quella del pubblico impiego. Bene partire da lì perché la crescita economica è fortemente legata alla qualità delle amministrazioni pubbliche e perché una vera riforma del pubblico impiego è ciò che può dare una speranza al Mezzogiorno. Inoltre, solo uno Stato che dia il buon esempio come datore di lavoro può essere credibile nel riformare le regole delle imprese private, le uniche che possono creare lavoro nei prossimi anni. Fondamentale allora non fare errori. Se si intende anche questa volta spezzare gli interventi in un decreto e un disegno di legge, bene assicurarsi che le due parti della riforma
non siano tra di loro incongruenti.
Le bozze che girano in questi giorni contengono un miglioramento importante rispetto agli annunci iniziali del ministro Madia, ma anche una grave omissione.
Il miglioramento consiste nel fatto che non c’è traccia alcuna dei massicci prepensionamenti annunciati dal ministro Madia come modo “di far posto ai più giovani”. Era un messaggio devastante per un settore privato che sta gestendo un ripido innalzamento dell’età pensionabile. Come dire: “io come datore di lavoro faccio esattamente l’opposto di quanto ho imposto ai vostri dipendenti e a voi”. Suggerendo che giovani e anziani sono tra di loro sostituibili, inoltre, scoraggiava le imprese dal mettere a frutto le forti complementarietà fra giovani e anziani in quanto a competenze, abilità e ruoli nell’organizzazione del lavoro.
L’omissione è legata all’assenza di un qualsiasi riferimento alle remunerazioni. Servirà questa omissione per placare il sindacato, ma non è pensabile riformare il pubblico impiego senza intervenire sulle retribuzioni. Per diversi motivi. Primo perché la riforma del pubblico impiego dovrebbe parlare alla spending review nel momento in cui devono essere ancora trovate le coperture per il bonus di 80 euro (quantificate in 14,3 miliardi, un punto di pil, da Banca d’Italia) e per evitare che scattino nuove clausole di salvaguardia. Se non si interviene né sul numero di dipendenti, né sulle retribuzioni, non si vede come la riforma del pubblico impiego possa contribuire ai risparmi di cui si ha bisogno per finanziare il taglio delle tasse sul lavoro. Seconda ragione per cui il Governo non può evitare di modificare i profili retributivi è che ha imposto un tetto a 240.000 euro alle retribuzioni dei dirigenti pubblici, ma non è pensabile rendere questo tetto duraturo se non si rivedono al contempo le retribuzioni al di sotto di questa soglia. Pensate a un capo dipartimento (ad esempio il presidente di un’authority) che guadagnava 500.000 euro e la cui retribuzione è stata più che dimezzata e a un dirigente di prima fascia che guadagnava 240.000 euro. Col tetto le due retribuzioni sono state equiparate, ma può una burocrazia sopravvivere all’eliminazione di divari retributivi fra ruoli gerarchicamente distinti? Il terzo motivo per intervenire sulle retribuzioni è che la mobilità richiesta per migliorare l’efficienza delle amministrazioni pubbliche richiede di spostare personale tra macro aree, a distanze generalmente superiori ai 100 km. Basti pensare che il Mezzogiorno ha lo stesso numero di dipendenti pubblici delle regioni del Nord, nonostante abbia 7 milioni di abitanti in meno e le nostre forze armate siano concentrate al Nord. Per incentivare mobilità di personale pubblico dal Sud al Nord non si può che intervenire sulle iniquità di trattamento che hanno spinto molti dipendenti pubblici a muoversi in controtendenza rispetto ai flussi migratori nel privato. Perché un insegnante di Caltanissetta deve guadagnare il doppio di un insegnante di Savona, quando si tenga conto delle differenze nel costo della vita fra le due città? Finché queste iniquità rimarranno, la poca mobilità del pubblico impiego sarà sempre nella direzione sbagliata.
L’unico intervento prospettato sin qui sulle remunerazioni dei pubblici dipendenti riguarda l’indicizzazione all’andamento del pil del premio di risultato per i dirigenti. Il premio di risultato dovrebbe servire a incentivare i pubblici dipendenti a raggiungere i traguardi prefigurati dal premio.
Ma cosa c’entra la performance dei singoli dirigenti pubblici con l’andamento del pil? Alla stessa stregua il Coni dovrebbe dare un premio alla nazionale azzurra se la Colombia perde con la Grecia ai mondiali di calcio. Se i premi di risultato non hanno sin qui funzionato nella Pa è perché prendevano come riferimento la performance dei singoli anziché quella di intere amministrazioni, che è molto più facile da definire in termini di servizi resi ai cittadini e che è in genere misurabile in termini obiettivi. Prendendo come riferimento la produttività delle amministrazioni anziché dei singoli si può generare un meccanismo di incentivi piramidali. Al livello più elevato della piramide, saranno le singole amministrazioni, e non i singoli lavoratori, ad essere premiate nel caso di raggiungimento degli obiettivi. Se l’amministrazione non raggiungerà i propri obiettivi, non dovrà essere concesso alcun premio ad alcun membro di quella amministrazione, al contrario di quanto in passato previsto dalla “riforma Brunetta”. Definendo i premi a livello di singola amministrazione, questi potranno anche essere non monetari. Spesso i premi che stimolano di più il gioco di squadra all’interno dell’amministrazione sono in natura anziché in termini stipendiali. Ad esempio nella scuola i premi più ambiti sono quelli in termini di materiale didattico, attrezzature, oppure in un ospedale è la possibilità di aprire un asilo nido per i figli dei dipendenti. Incentivi per i singoli potranno anche essere definiti in termini di carriere, dato che i posti pubblici durano a lungo. Più che imporre regole rigide per la distribuzione dei premi ai singoli, bene fissare regole rigide per gli avanzamenti di carriera che impediscano le promozioni generalizzate. Le amministrazioni premiate avranno automaticamente un premio per il dirigente apicale, la persona che in prima istanza è responsabile dell’operato della singola amministrazione e dei suoi dipendenti. Se l’amministrazione e il dirigente saranno premiati, si procederà ai livelli inferiori della piramide. In questo sistema, il dirigente locale ha tutti gli incentivi per valutare i suoi collaboratori e incentivarli anche prefigurando i loro potenziali avanzamenti di carriera. Dal modo con cui riesce a farlo e a giustificarlo agli occhi di tutti gli interessati, dipenderanno le motivazioni e la coesione del gruppo, dunque i risultati dell’unità che dirige, di cui sarà direttamente responsabile. Ha anche gli incentivi giusti per assumere personale di qualità. A questo proposito la scelta del ruolo unico è discutibile. Perché un esperto (ad esempio un agronomo al ministero dell’Agricoltura) non deve poter ambire ad arrivare al gradino più alto della scala retributiva se lavora bene? Attenzione perché le amministrazioni pubbliche, con queste scelte, rischiano di perdere molte competenze preziose.
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