Nella fabbrica di Adidas e Nike dove la Cina ha imparato a scioperare
SHENZHEN/DONGGUAN — Zhang Zhiru ha cambiato l’ora dell’appuntamento una quantità di volte. E fino all’ultimo è rimasto sul vago per il luogo. Ha i suoi motivi, perché è il capo del Centro Shenzhen Chunfeng per le controversie sul lavoro, un’organizzazione non governativa che insegna agli operai le tecniche di contrattazione collettiva, attività non facile in Cina. Nelle ultime settimane Zhang ha consigliato i 45 mila operai in sciopero della Yue Yuen di Dongguan, il primo produttore al mondo di scarpe sportive: sette impianti per 1,4 milioni di metri quadrati e circa 320 milioni di paia all’anno per marchi come Adidas, Nike, Asics. È stata la protesta operaia più imponente nella storia del Guangdong, la provincia meridionale nota come la Fabbrica del Mondo.
Zhang ha anche una certa esperienza delle celle di sicurezza della polizia; ci dice che il suo vice, Lin Dong, è «ospite delle autorità in una casa al mare da settimane» (significa che lo hanno arrestato). «In effetti da noi c’è un modo di dire: “Le autorità non aiutano la gente a mettere a posto i loro problemi, mettono a posto la gente che indica i problemi”» ci spiega con un mezzo sorriso. Quindi, meglio essere prudenti con gli appuntamenti. La cautela non è servita a molto: nell’ufficio del sindacalista indipendente, una specie di garage con due computer, una fotocopiatrice e qualche scaffale tra biciclette e motorini, troviamo persone strane e silenziose. «Sicurezza di Stato» sussurra Zhang accennando a un giovanotto in maglietta a righe che non perderà una parola del nostro colloquio.
Perché lo sciopero? «È cominciata ad aprile, quando un lavoratore della Yue Yuen appena pensionato è andato a ritirare i soldi accumulati con i contributi sociali. O meglio i soldi che credeva di avere da parte, perché l’azienda aveva omesso di versare la quota degli straordinari, che sorpassano di molto la paga minima (per otto ore al giorno a sfornare scarpe sportive si prendono 1310 yuan al mese, circa 155 euro)». La voce si è sparsa, moltissimi altri sono andati a controllare: c’è stato chi ha scoperto di avere ricevuto contributi per 35 mesi mentre aveva lavorato per 85; altri non hanno trovato traccia della quota prevista per l’edilizia popolare, l’assistenza sanitaria. «Il primo sciopero è stato il 5 aprile, due ore per andare a presentare una petizione al governo locale a Dongguan, ma la polizia è intervenuta» dice Zhang. «Il 10 gli operai ci hanno contattato, siamo andati a Dongguan la sera del 13: eravamo riuniti da due minuti quando sono arrivati venti agenti e ci hanno portati via».
Lin Dong è finito «ospite della polizia al mare»; Zhang Zhiru è controllato, ma lo sciopero dei 45 mila è andato avanti per venti giorni con poche intimidazioni per gli standard cinesi, solo qualche bastonatura e 5 o 6 arresti. Segno di una certa comprensione da parte delle autorità. Il governo di Pechino da mesi sta cercando il modo per riequilibrare l’economia in rallentamento: meno produzione a basso costo, salari e pensioni migliori per avere un aumento dei consumi interni. Sta di fatto che il viceministro del Lavoro cinese ha chiesto (ordinato) alla Yue Yuen di trovare una soluzione e l’azienda ha accettato di versare 37 milioni di dollari di arretrati.
Hanno vinto i lavoratori? Vorremmo vedere le cose dall’interno della grande fabbrica. Jerry Shum, responsabile del Dipartimento relazioni con gli investitori di Yue Yuen Industrial Holdings, è molto gentile al telefono da Hong Kong (la cortesia è il suo mestiere), ma ci risponde che è meglio di no: «Non possiamo ricevere visite, lo sciopero ha provocato ritardi nella produzione e siamo indietro con le forniture ai clienti, dobbiamo concentrarci per recuperare». Jerry è rassicurante (anche questo è il suo mestiere): «Ora la situazione è calma. Tutti sono contenti. Prima versavamo i contributi per le assicurazioni sociali facendo riferimento allo stipendio medio standard pubblicato dalle autorità locali, cosa che era completamente legale, ma ora paghiamo tutto in base agli stipendi reali dei dipendenti. Sono tutti soddisfatti».
Andiamo a vedere. Davanti alle fabbriche grandi striscioni ammoniscono: «L’indolenza produce perdite». Il personale della security ci tiene a distanza dai cancelli: vestono uniformi ben stirate, con stivaletti anfibi, guanti bianchi e baschi rossi. Aspettiamo l’uscita del turno cominciato al mattino per chiedere se davvero sono tutti soddisfatti. Un gruppetto va di filato dentro una trattoria per noodles : perché non mangiate alla mensa? «Perché fa schifo» risponde un ragazzo. Zhuo Qi, maglietta, calzoncini corti e ciabatte (sono tutti vestiti così), ha 43 anni: «Lavoro qui da 10, sono un migrante, vengo da Chongqing, faccio il caposquadra». Avete vinto? «Guardi che anche noi operai dovremmo pagare gli arretrati per metterci in regola: io ho fatto i calcoli, 50 mila yuan (6mila euro) e chi ce li ha? Abbiamo provato a spiegarlo ai giornalisti cinesi, ma nessuno ne ha voluto scrivere». Una donna: «Mi chiamo Yan Gairong (Gairong significa “La riforma è gloriosa”), ho 45 anni, vengo dallo Shandong e lavoro qui da 9. Ho due figli a casa con i nonni, li vedo una volta l’anno. Guadagno bene, 1.700 yuan con gli straordinari e ora dopo lo sciopero ne faccio tanti. Sto alla pressa delle forme per le Nike, 500-600 al giorno», dice e si massaggia continuamente la spalla. E lei un bel paio di Nike le ha? «Nooo, mi costerebbero un mese di salario». Ambizioni? «Tornare per sempre nello Shandong, il bambino più piccolo non sapeva nemmeno di avere una mamma». Peng Yaohui ha 25 anni, migrante come tutti, arrivato dallo Hunan. Ha partecipato all’organizzazione dello sciopero nel suo reparto, che programma al computer i fregi e i colori delle scarpe. Avete vinto? «Finora solo promesse e offerta di licenziarsi con una buonuscita. E comunque, chi li gestirà i fondi pensione? Funzionari locali corrotti, come sempre».
I salari nella Fabbrica del Mondo tra Shenzhen, Dongguan, Guangzhou, Foshan nel 2013 sono cresciuti del 16%. Prima o poi qualcuno dei 45 mila di Dongguan avrà i soldi per comprarsi un paio di Nike o di Adidas. «È come la vecchia storia di Henry Ford che capì la necessità di pagare i lavoratori abbastanza perché potessero acquistare una delle sue auto» ha detto alla Bloomberg David Dollar, ex funzionario del Tesoro Usa. «Penso che il governo centrale sia più tollerante, sono le autorità locali che temono le richieste dei lavoratori, perché se i costi aumentano le multinazionali se ne vanno» ci dice Zhang. I 45 mila della Yue Yuen forse hanno vinto e forse no. Pechino comunque non li ha repressi, perché chiedevano solo più potere d’acquisto e questo va bene. Ma che succederebbe se a Dongguan si formasse un movimento sindacale simile a Solidarnosc? Qualcuno lo chiama «l’incubo polacco».
Guido Santevecchi
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