Migranti, l’utopia della civiltà
Fra i tanti difetti della campagna elettorale per le europee – anzitutto lo stile più che mai grossolano e sguaiato — salta agli occhi la marginalità, se non l’assenza, almeno in Italia, di un tema che fu caro a studiosi insigni come Fernand Braudel, nonché a qualche politico illuminato, ad alcune formazioni di sinistra e tuttora a ciò che resta del movimento altermondialista: il progetto di un’area euro-mediterranea basata sul dialogo interculturale e sulla reciprocità in ogni campo, volta a unificare lotte e rivendicazioni sociali, anche a valorizzare il pluriverso meridiano e a rifondarne la «civiltà conviviale», per dirla alla Braudel.
La stessa Conferenza di Barcellona del 1995, che ambiva a fare del bacino mediterraneo uno spazio «di pace, stabilità e sicurezza», fondato sul partenariato — per la verità, soprattutto sulla creazione di una zona di libero scambio – pur con ambivalenze e difetti, oggi appare come l’utopia di un tempo remoto.
Di questa « utopia » poco resta. Prevalgono, invece, le politiche neocoloniali, le strategie tendenti a rinchiudere i paesi della sponda Sud in un modello neoliberale avente come cardini il pagamento del debito e i diktat del Fondo monetario internazionale, nonché il ricatto che vin–ola la «cooperazione» ad accordi-capestro: quelli che delegano loro la parte più sporca del lavoro di «contenimento» dei flussi di profughi e migranti irregolari.
Sicché quel che più spicca oggi è il volto tragico del Mediterraneo, i cui principali luoghi-simbolo sono l’isola di Lampedusa, il nord della Libia, la frontiera tra il Marocco e l’Algeria, le doppie barriere di Ceuta e Melilla: spazi ove si consumano violenze e gravi violazioni dei diritti umani. Pur di ridurre la porosità delle frontiere mediterranee, l’Unione europea non solo ha esteso la propria sovranità fino al continente africano e dunque esternalizza le frontiere, finanzia centri di detenzione, pattuglia e respinge. Non solo si è dotata di complessi dispositivi politico-militari, di cui Frontex è l’espressione emblematica.
Ma chiude, anche, entrambi gli occhi di fronte a nefandezze altrui: deportazioni collettive, torture, stupri, lager ove sono ammassati i migranti e i profughi respinti, quando non abbandonati alla morte in zone frontaliere del deserto.
Tutto ciò si consuma perlopiù nell’indifferenza dell’opinione pubblica dei paesi europei e di buona parte delle élite politiche. Oppure è oggetto, ciclicamente, di rappresentazioni distorte e allarmistiche. Quanto alla pietas per le vittime, allorché si esprime è solo un sussulto effimero. Come documenta efficacemente Carlo Lania sul manifesto del 21 maggio scorso, tra i profughi costretti a fuggire da conflitti, violenze, dittature, sempre più numerosi sono i minorenni soli; e sempre più spesso l’infinita ecatombe marina comprende tra le vittime un certo numero di bambini. Ma neppure questo colpisce a sufficienza l’immaginario collettivo, né concorre a produrre una narrazione pubblica del Grande Esodo. Non vi sono monumenti o memoriali ufficiali a ricordare il sacrificio di migranti e profughi.
Sebbene in misura inadeguata, la vicenda dell’emigrazione italiana, soprattutto transoceanica, continua ad avere qualche risonanza nella memoria pubblica o almeno nell’immaginario dei non immemori. Qualcuno ancora canta o almeno conosce «E da Genova/in Sirio partivano/per l’America…», mentre non ci sono canzoni popolari, che io sappia, a rammemorare i naufragi di Porto Palo, della Kater I Rades, di Lampedusa, Malta, Tunisia, Canale di Sicilia, Kerkennah, Libia, Scicli e ancora Lampedusa e Malta…
Le vecchie talpe del nazionalismo, del neocolonialismo, del leghismo e d’altri razzismi hanno ben scavato e le talpe più giovani «né di destra, né di sinistra» ne perpetuano l’opera: quelle vittime non sono «nostre», appartengono a un’umanità che forse non è veramente tale, neanche quando assume le sembianze del cadavere di un bambino.
Una tale rimozione non è priva di conseguenze sul piano delle politiche dell’immigrazione e dell’asilo, delle concrete condizioni di vita e di lavoro dei migranti, del loro status giuridico, della loro esclusione dai confini della cittadinanza, della discriminazione e del razzismo che subiscono. Vi è, mi sembra, un’influenza reciproca tra il modo in cui l’immaginario e la coscienza collettivi percepiscono migranti e profughi, o li rimuovono dal proprio orizzonte, e la concretezza delle politiche che li respingono, li escludono, li emarginano, li discriminano o li rendono meteci o schiavi, a disposizione di un capitalismo ridivenuto selvaggio. Tutto ciò, a sua volta, contribuisce alla crisi attuale dell’Unione europea.
Che non è solo economica e finanziaria, ma anche politico-ideologica, come a ragione rimarca Slavoj iek. Una delle sue espressioni è l’avanzata in tutta Europa sia della destra apertamente fascista e razzista, sia di quella nazionalista, populista, identitaria e/o cripto-fascista (aggettivo che i Wu Ming riservano al grillismo).
Come icasticamente scriveva nel 2006 Rada Ivekovic, nel rifiutare ai profughi e ai migranti «l’approdo, i permessi di soggiorno, i documenti e la cittadinanza, l’Europa, immemore delle sue promesse e speranze mediterranee, riconfigura al ribasso anche la propria cittadinanza, finendo con lo sminuirla».
È anche intorno a questo complesso di questioni che si gioca il destino dell’Unione europea. Per contrastarne la deriva imperialista e neoliberale – come aspirano a fare le sinistre che appoggiano la candidatura di Alexis Tsipras – occorre, fra l’altro, affidare il continente a un Mediterraneo di pace, uguaglianza e giustizia sociale. Almeno idealmente, per cominciare.
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