Elezioni in Sudafrica vince l’ ANC, il 6% per Malema

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A vin­cere le ele­zioni pre­si­den­ziali di quest’anno in Suda­frica è stato ancora una volta L’African Natio­nal Con­gress (Anc), il par­tito che con la sto­rica ele­zione di Man­dela nel 1994 ha inau­gu­rato due decenni inin­ter­rotti al governo della nazione. E che con il l 62,16% dei voti in que­sta tor­nata si appre­sta a inco­ro­nare Jacob Zuma Pre­si­dente al suo secondo man­dato elettorale.

Il suo mag­gior rivale, il Demo­cra­tic Alliance (Da), ha preso il 22,22% (di cui il 6% dagli elet­tori neri), men­tre la neo­for­ma­zione di estrema sini­stra gli Eco­no­mic Free­dom Fighters (Eff) di Julius Malema, ha inau­gu­rato la sua prima volta in lizza con un 6,35%.

Dei 29 par­titi nell’arena, in 13 hanno rice­vuto voti suf­fi­cienti per essere rap­pre­sen­tati nella Natio­nal Assem­bly: 249 seggi vanno dun­que all’Anc, 89 ai Da e 25 all’Eff, men­tre l’Inkatha Free­dom Party (IFP) ne ha gua­da­gnati 10 e l’Agang di Mam­phela Ram­phele, l’ex com­pa­gna di Steve Biko, ne avrà 2 il Natio­nal Free­dom Party (NFP) 6.
L’affluenza alle urne è stata del 73.43% su 32,6 milioni di aventi diritto al voto.

Pur man­te­nendo la mag­gio­ranza in Par­la­mento e in 8 pro­vince, l’Anc perde ben 15 seggi e per la seconda volta resta par­tito d’opposizione nella pro­vin­cia del Western Cape, dove a gover­nare dal 2009 sono i Da.
Sep­pur Anc abbia gua­da­gnato la vit­to­ria con un’ampia mag­gio­ranza del 62% dei voti, tale per­cen­tuale resta infe­riore a quelle delle pre­ce­denti tor­nate elet­to­rali che ave­vano regi­strato pic­chi del 66% nel 2009 e del 68% sotto l’ex pre­si­dente Thabo Mbeki.

Un calo di soste­gni dun­que, che se da un lato sim­bo­leg­gia il declino del vec­chio par­tito di libe­ra­zione dall’altro sot­to­li­nea quanto esso sia ancora for­te­mente radi­cato presso la mag­gio­ranza dei suda­fri­cani. I quali, c’è da dire, gli hanno evi­tato la débâ­cle nono­stante il Paese versi in più che evi­denti squi­li­bri eco­no­mici tra la ricca classe dei bian­chi, un’affaristica middle class nera, e la mag­gio­ranza della popo­la­zione povera che dopo 20 anni dalla fine dell’apartheid (e due decenni di governo Anc) ne subi­sce ancora tutte le gravi con­se­guenze; tassi di disoc­cu­pa­zione al sopra del 25% (40% quella gio­va­nile), un sistema sani­ta­rio e sco­la­stico pub­blico che non rag­giunge stan­dard accet­ta­bili, alti tassi di cri­mi­na­lità, scan­dali finan­ziari legati ad alti livelli di cor­ru­zione poli­tica (come quello che recen­te­mente vede Zuma accu­sato di appro­pria­zione inde­bita di fondi sta­tali per un valore di 23 milioni di dollari) .

Ma la sua vit­to­ria come par­tito di mag­gio­ranza d’altro canto non fa che con­fer­mare anche un altro fat­tore, e cioè l’assenza di un’alternativa cre­di­bile e all’altezza della mac­china par­ti­tica che è diven­tata Anc. Un ibrido, che sotto la corazza di una solida strut­tura par­ti­tica, con tutte le dege­ne­ra­zioni che que­sto com­porta, rie­sce a man­te­nere salde e vive le aspi­ra­zioni fon­da­tive e l’anima del movi­mento di libe­ra­zione. Fatto che, in un Paese che cono­sce ancora forti disu­gua­glianze eco­no­mi­che e sociali, resta un buon asso vincente.

A carat­te­riz­zare que­ste ele­zioni è stata la prima volta al voto dei cosid­detti Born free, la gene­ra­zione dei nati a par­tire dal 1994 in un Suda­frica libero e mul­ti­raz­ziale, gene­ra­zione che non ha memo­ria diretta dell’apartheid. Rap­pre­sen­tano circa il 40% della popo­la­zione, vale a dire un eser­cito di 20 milioni di suda­fri­cani. Su un totale di circa 1,9 milioni di gio­vani di età com­presa tra 18 e i 19 anni, solo 646.313 si sono regi­strati per le ele­zioni del 7 mag­gio, cioè appena uno su tre.

Per Anc, che conta molto sul suo pas­sato come movi­mento di libe­ra­zione e sulle colpe del regime dell’apartheid per fare presa sugli elet­tori, i born free sono un pro­blema. Ma di que­sto “pro­blema”, delle loro aspi­ra­zioni che fanno a pugni con una realtà eco­no­mica e lavo­ra­tiva disa­strosa, Anc dovrà prima o poi farsi carico e impa­rare a par­larne la lin­gua se vorrà restare al potere e cam­biare real­mente il volto del Paese.



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  1. Gianni Sartori
    Gianni Sartori 25 Ottobre, 2014, 22:40

    “VIDI QUEL VOLTO E MI PARVE FAMILIARE…” (in memoria di Nelson Mandela)
    Gianni Sartori

    “Il giorno dopo, con la giacca a vento e il baschetto verde, stavo in piedi davanti a un muro. Papà mi scattava una foto e io feci un’espressione simile a quella di una tigre che ruggisce o a una foca che sbadiglia. Dietro di me, il vero soggetto della foto: due manifesti formato gigante. Nel primo si vedeva una donna con due grandi ali che diceva: “Diritti per tutti”. Il secondo mostrava una faccia nera che occupava tutto il manifesto. Stavamo camminando per quelle strade larghissime di Parigi fatte apposta per far passare i carri armati. Vidi quel volto e mi parve familiare. Sotto, c’era scritto: LIBERTE’ POUR NELSON MANDELA!”. Ecco chi era! Uno di quelli della mostra. Uno dei capi di tutta la faccenda. Uno del paese senza nome. Vederlo così, con la barba e gli occhi tristi, mi faceva dispiacere. Mio papà provò a staccare il manifesto per portarselo via.”.
    Così Leonora ricordava (in “La forma incerta dei sogni” PM editore) il suo primo giorno nella capitale francese, a sette anni. Nella sua personale interpretazione della Marianne (la “donna con le ali”) e dei boulevards (le avevo spiegato la demolizione del tessuto urbano originario nella Parigi dell’800 per impedire la costruzione di barricate e permettere all’artiglieria di manovrare), aveva prontamente riconosciuto il volto del prigioniero di cui in famiglia si discuteva spesso e per la cui liberazione si raccoglievano firme. Era il 1986, probabilmente l’anno più drammatico per il Sudafrica dove la popolazione nera si stava ribellando contro il sistema dell’apartheid.
    Il 19 febbraio ad Alexandra (Johannesburg) la polizia sudafricana si rese responsabile dell’ennesimo eccidio uccidendo una ventina di manifestanti. A tre giorni di distanza gli scontri proseguivano nella città assediata, circondata dall’esercito e isolata dal resto del paese.
    Il governo di Pretoria stava cercando in ogni modo di impedire il dilagare delle proteste, non solo attraverso la repressione, ma anche innescando con provocazioni “da manuale” conflitti interni ai diversi gruppi politici per scatenare faide e regolamenti di conti. Con l’intento di alimentare nell’opinione pubblica l’idea che i neri non fossero in grado di autogovernarsi e legittimare quindi l’intervento della polizia definita “imparziale”.
    L’anno prima, il 1985, era stato attraversato da un grandioso ciclo di lotte contro l’apparato burocratico-militare statale. Il 21 marzo a Langa (Uitenhage-Port Elisabeth) la polizia celebrava a modo suo l’anniversario della strage di Sharpeville del 1960: aprendo il fuoco con fucili da caccia grossa su un corteo funebre (composto prevalentemente da donne e bambini) e provocando una ventina di morti. Altrettanti neri erano stati ammazzati in circostanze analoghe nella settimana precedente. A fine aprile 1985 le vittime della repressione dall’inizio dell’anno erano oltre centocinquanta. In maggio il “Comitato di sostegno ai parenti dei detenuti” (DPSC) informava che “nelle ultime settimane 21 persone sono morte nelle mani della polizia in seguito a interrogatorio, cinque dall’inizio di aprile”. Negli ultimi venti anni i morti accertati nelle stazioni di polizia risultavano essere 63 (24 nel solo 1984), la maggior parte per ferite alla testa. Il DPSC denunciava poi la scoperta di una fossa comune di almeno cinquanta cadaveri sepolti clandestinamente dalla polizia in marzo nella township di Zwide.

    La mobilitazione degli abitanti dei ghetti neri si fondava sulla tattica di aggregarsi, attaccare e disperdersi, contemporaneamente in più punti del paese. Ferma restando la disparità incolmabile tra chi lanciava pietre e chi sparava. Altrettanto efficaci le innumerevoli azioni di lotta nonviolenta (dal boicottaggio dei negozi di proprietà dei bianchi alla partecipazione di massa ai funerali dei militanti caduti), determinanti per la ricomposizione della comunità oppressa.
    A venir messo in discussione ormai non era soltanto il monopolio del potere da parte dei bianchi, ma anche il ruolo delle multinazionali occidentali (o meglio, delle loro succursali) che realizzavano enormi profitti grazie allo sfruttamento intensivo della manodopera indigena. Tra le altre, a futura memoria: Coca Cola, IBM, Generals Motors, Alfa Romeo, Union Carbide, Olivetti, IRI, Ford, Siemens, Wolkswagen, Bosch, Renault, Leyland, Goodyear, Toyota, Nissan, Ciba, Nestlé, Spie-Batignelles, Pechiney, Rio Tinto Zinc, Barklays, Gec, BP, Shell, Mobil, Control Data Mark. Caltex ecc. Nel settembre del 1985, con l’assalto congiunto di neri e meticci ai quartieri residenziali della ricca borghesia bianca, si era giunti a livelli di scontro fino a qual momento impensabili.
    Contemporaneamente il movimento sviluppava una capillare azione contro le “quinte colonne” dell’apartheid nei quartieri neri: collaborazionisti, funzionari locali, “quisling”, spie e infiltrati. In questa drammatica spirale di lotte, repressione e nuove lotte e nonostante le stragi, gli squadroni della morte, le torture, i licenziamenti di massa e le conseguenti deportazioni (a fine aprile più di 17mila minatori per uno “sciopero illegale” nelle miniere della Anglo-American e della Anglo-Waal), le masse popolari sudafricane sembravano avviate autonomamente verso l’insurrezione. E’ significativo che soltanto alla fine del giugno 1985, dopo mesi di scontri e rivolte, l’ANC lanciasse un suo appello a prendere le armi contro il governo segregazionista.
    Questo nuovo ciclo di lotte (determinante dopo le sconfitte degli anni sessanta e settanta -v. Soweto- e di cui si possono individuare le origini nei tumulti scoppiati quasi contemporaneamente in otto città-satellite nere il 3 settembre 1984) aveva conosciuto naturalmente anche i suoi fallimenti. Era clamorosamente naufragata la manifestazione del 28 agosto 1985 al carcere di Pollsmoor, impedita con centinaia di soldati, poliziotti, cani, blindati, fucili e fruste. Organizzata e preannunciata con clamore da alcuni leader religiosi (immediatamente arrestati) come un decisivo confronto tra governo e movimento antiapartheid (Boesak aveva dichiarato che avrebbero “rivoltato dalla testa il paese”), nella sua spettacolarità aveva assunto forse troppa importanza, esponendo i manifestanti alla repressione più totale e indiscriminata. Per tutto l’85 sarà un crescendo di lutti. In agosto, dopo tre giorni di scontri, tra i neri si contano oltre trenta morti. E il massacro della popolazione nera in rivolta proseguirà inesorabilmente anche negli anni successivi.
    Contro cosa si erano ribellati i neri del Sudafrica, oltre che contro la discriminazione razziale?
    Un lungo elenco di buone ragioni: lo sfruttamento bestiale nelle miniere, nelle fabbriche, nelle fattorie-prigioni; l’alto livello di mortalità infantile (ufficialmente, 15% nei ghetti neri metropolitani, 25% nelle homelands, ma in realtà molto superiori, secondo l’ANC, arrivando al 50%); i lager per prigionieri politici come l’isola di Robben; le campagne di sterminio fuori dei confini contro i campi profughi (un migliaio di vittime a Kassinga nel 1977 e altri attacchi in Botswana e Leshoto tra il 1984 e il 1985 ); le condizioni di vita subumane per donne, vecchi, bambini, disoccupati e per tutti coloro che restavano esclusi dal mercato della forza lavoro; gli omicidi bianchi nelle miniere (nel 1985 a Secunda con decine di vittime), spesso per trascuratezza e cinismo da parte dei capisquadra bianchi; sempre nelle miniere la media di un morto ogni venti ore; la morte precoce dei minatori che estraevano l’uranio in Namibia, occupata dalla RSA che vi aveva introdotto l’apartheid;
    le torture, le uccisioni in carcere, le esecuzioni, le “sparizioni” di oppositori (un caso fra tanti, quello dei tre militanti del “Port-Elisabeth Black Civic Organisation” nel marzo 1985 e di altri esponenti del PEBCO, Sipho Hashe, Qaquvuli, Godolozi e Champion Galela) e gli squadroni della morte statali e parastatali (nel solo mese di giugno 1985 l’uccisione di quattro dirigenti dell’UDF a Cradok e di otto esponenti del COSAS); l’arresto e talvolta anche la tortura di bambini (come gli 800 dai 6 ai 13 anni a Soweto nell’agosto 1985) per non essere andati a scuola o per aver violato le norme dello stato di emergenza; i più di cento bambini morti di fame ogni giorno in quello che è uno dei paesi più ricchi del mondo. Oltre, naturalmente, al sacrificio di migliaia di “dannati della terra” caduti nelle lotte degli ultimi anni, da Sharpeville a Soweto.
    Ora, appare evidente che in Sudafrica, nonostante la fine dell’apartheid, molte di tali questioni rimangono drammaticamente aperte. Va ricordato che ancora negli anni ottanta, il regime di Botha aveva finanziato e favorito la nascita di una borghesia clientelare nera (permettendo a qualche imprenditore di costituire società al di fuori dei bantustan). Attualmente anche molti esponenti dell’ANC si sono trasferiti nelle aree di lusso, con ville e campi da golf. Con il risultato che mentre sono diminuite le disparità tra bianchi e neri, sono vertiginosamente aumentate quelle all’interno della comunità nera. E naturalmente le multinazionali (in particolare quelle anglo-statunitensi) hanno potuto conservare il loro potere quasi inalterato. Ma sarebbe comunque ingiusto attribuire troppe responsabilità a Mandela. Un uomo che aveva dignitosamente fatto la sua parte contro l’ingiustizia istituzionalizzata. Sicuramente molti tra i suoi seguaci e successori – in particolare Zuma – non si sono mostrati all’altezza e il cammino da percorrere è ancora lungo (a cominciare da quella ridistribuzione delle terre che era nel programma originario dell’ANC), ma questo sopravvissuto a 27 anni di prigione (e, moralmente, anche alla “sfilata degli ipocriti” intervenuti al funerale) se ne è andato con il suo carisma di combattente della libertà praticamente intatto. Alle future generazioni il compito di completarne l’opera. Quanto alla sua eredità ideale e politica, più che dal presidente statunitense Obama, penso sia oggi rappresentata da “Apo” Ocalan, il leader curdo rinchiuso nelle galere turche.
    A chi scrive, con la morte di Nelson Mandela sono tornati alla mente i nomi delle innumerevoli vittime del regime dell’apartheid. Alcuni sono comunque passati alla Storia: Steve Biko (militante della SASO, morto sotto tortura), Victoria Mxenge (avvocato dell’UDF, uccisa da una squadra della morte), Joe Gquabi (oppositore, assassinato dai servizi segreti), Ruth First e Janette Curtis (entrambe con un pacco-bomba dei servizi segreti di Pretoria), Benjamin Moloise (poeta, impiccato), Neil Aggett e Andreis Radtsela (sindacalisti, morti sotto tortura), Dulcie Septembre (esponente dell’ANC, assassinata in Francia dai servizi segreti)…). Ma per un gran numero di assassinati il rischio è di essere definitivamente dimenticate. Chi si ricorda ancora di Saoul Mkhize, Samson Maseako, Taflhedo Korotsoane, Elias Lengoasa, Sonny Boy Mokoena, Mvulane, Bhekie…?
    Per ognuno, una piccola storia di sofferenze e umiliazioni ancora da raccontare.
    E un commiato affettuoso vada anche alle tante persone conosciute all’epoca del maggiore impegno per “strappare le radici dell’ingiustizia” e che nel frattempo ci hanno lasciato: Benny Nato, Alberto Tridente, Edgardo Pellegrini, Beyers Naudé…
    Un esempio per chi li ha conosciuti e per chi non ha avuto questo onore.
    Gianni Sartori (dicembre 2013)

    P.S. Quanto a Leonora, anni dopo, nel 2004, partì per Sharpeville (città-martire dove nel 1960 la polizia aveva aperto il fuoco con le armi automatiche contro una folla inerme che protestava contro il sistema dei lasciapassare, almeno una settantina di vittime) per incontrare di persona alcuni sopravvissuti alla prigione, alla tortura e alla condanna a morte sospesa soltanto il giorno prima dell’esecuzione (I “Sei di Sharpeville”: Duma Joshua Khumalo, Theresa Machabane Ramashamole, Oupa Moses Diniso, Mojalefa Reginald Sefatsa, Francis Manentsa Mokhesi e Reid Malebo Mokoena) perché “una vocina leggera mi disse che forse una generazione non basta. Le battaglie sono più lunghe e forse funzionano con il sistema della staffetta. Ci si passa il testimone”.
    Ma questa è già un’altra storia…
    GS

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  2. Gianni Sartori
    Gianni Sartori 6 Novembre, 2014, 17:52

    …per non dimenticare chi ha lottato affinché “altri fossero liberi” (senza avere nulla in cambio…)

    I GUERRIERI DIMENTICATI DEL SUDAFRICA
    “Se questo paese è libero -si rammaricava un ex guerrigliero – ed ha potuto organizzare eventi come la Coppa del mondo, lo deve all’MK”, Umkonto we Sizwe, il braccio armato dell’African National Congress (ANC). Ma sembra che all’epoca nessun alto dirigente si fosse recato nel misero ufficio dei reduci, con le pareti ricoperte da manifesti ingialliti, per invitare qualche veterano alle manifestazioni.
    Tutto era cominciato il 21 marzo 1960. Quel giorno in diversi centri urbani della RSA si svolsero manifestazioni, organizzate dal Pan African Congress (PAC), contro l’obbligo per i neri di portare con sé un lasciapassare. Il regime rispose massacrando a Sharpeville decine di persone. Ufficialmente le vittime furono sessantanove, ma i testimoni sostengono che furono molte di più. Altre vittime a Langa (52 morti) e a Nyanga. Seguirono scioperi, manifestazioni, scontri con barricate e assalti agli uffici del Native Affairs Department. Migliaia di persone vennero arrestate, mentre le truppe isolavano i centri della rivolta. In aprile, il governo metteva fuori legge l’Anc e il Pac. Entrambe le organizzazioni costituirono un braccio armato. L’Anc con l’Umkonto we Sizwe (MK, “Ferro di lancia della nazione”) e il Pac con le unità Pogo (“Noi stessi”). Le prime azioni armate dell’MK contro alcuni palazzi ministeriali a Johannesburg, Port Elisabeth e Durban risalgono al dicembre 1961. Nel 1963, a Rivonia, vennero arrestati vari dirigenti dell’organizzazione clandestina e la guerriglia si trasferì nei paesi amici della “linea del fronte”: Zambia, Mozambico, Tanzania, Angola. Proprio in Angola vennero scritte alcune delle pagine più oscure della lotta di liberazione. Accusati di indisciplina e ingiustamente sospettati di tradimento, alcuni guerriglieri del “Campo 4” vennero torturati dai loro stessi compagni. Altri vennero fucilati per essersi rifiutati di tornare a combattere. In seguito, negli anni ottanta, l’MK porterà a segno alcune delle sue azioni più spettacolari e disperate: attentati contro i depositi di carburante e lanci di granate contro una centrale nucleare.
    Oggi i sopravvissuti dicono di sentirsi “messi da parte, cancellati dalla memoria del paese” come i volti dei loro antichi compagni, morti in combattimento o impiccati nelle carceri. Anche Mandela, il loro ex comandante, sembrava averli dimenticati. L’altro leader, Chris Hani (esponente dell’ANC e del SACP, il partito comunista sudafricano) era stato ammazzato in circostanze non del tutto chiare. Ufficialmente da bianchi razzisti, ma non si esclude un regolamento di conti interno all’ANC.
    Divenuto presidente, Jacob Zuma, per un breve periodo esponente dell’MK, aveva costituito un segretariato dotandolo di un modesto finanziamento. Un gesto comunque di buona volontà, anche se per la maggior parte di questi freedom fighters era ormai troppo tardi. Molti ex combattenti, ricordava Kebby Maphatsoe “vivono per la strada e per mangiare rovistano nella spazzatura”. Analogo destino per chi faceva parte delle Unità di autodifesa (SDU), 45mila ragazzi che negli anni ottanta presero alla lettera la consegna di “rendere ingovernabili le townships”. Agli scontri con l’esercito e la polizia si aggiunsero i conflitti settari con l’Inkhata Freedom Party (IFP, definiti quisling, collaborazionisti) e le lotte fratricide con formazioni minori. Una guerra civile a bassa intensità, alimentata ad arte dai servizi segreti del regime di Pretoria.
    Con la fine dell’apartheid, dopo un rapidissimo processo di smobilitazione delle strutture della guerriglia, in parte erano stati arruolati nell’esercito. Si temeva che questi uomini, provvisti di armi e abituati ad usarle, venissero utilizzati da gruppi più radicali o dalle gang criminali. La maggior parte non riuscì ad inserirsi e abbandonò l’esercito ritrovandosi in una condizione di emarginazione. Il giornalista Jean-Philippe Rémy (Le monde) ne aveva incontrati alcuni che si sono isolati sulle montagne del Magaliesberg, non lontano da Johannesburg. Perseguitati dai ricordi, avevano iniziato un processo di purificazione tradizionale che si richiama alle tradizioni guerriere dei popoli nativi.
    Gianni Sartori

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