I separatisti ucraini verso l’indipendenza «Uniamoci a Mosca »
DONETSK — Annessione alla Russia o federalismo. Il livello politico del movimento è pronto a capitalizzare il risultato del referendum di domenica 11 maggio. Ma, a quanto pare, con ambizioni e programmi diversi. A Donetsk il leader dei filorussi Denis Pushlin, davanti ai giornalisti occidentali, non ha risparmiato sulla retorica: «Sulla base della volontà popolare e del ripristino della giustizia storica, chiediamo alla Federazione russa di valutare l’assorbimento della Repubblica popolare di Donetsk, che ha sempre fatto parte del mondo russo». Anche la «Repubblica di Luhansk» si dichiara indipendente, ma il consiglio regionale si rivolge, invece, a Kiev, chiedendo «un’iniziativa di emergenza per cambiare la Costituzione e adottare il federalismo».
Ieri sono stati diffusi i numeri della consultazione, cifre assolutamente incontrollabili. A Donetsk avrebbe votato il 79% dei circa 3,2 milioni di elettori. I «sì» sarebbero stati pari all’89,7%. A Luhansk, tasso di affluenza pari all’80% su 1,8 milioni di aventi diritto; 95,9% di «sì». Ieri è arrivata anche la reazione di Mosca. Doppia. Il ministro degli Esteri, Sergej Lavrov, ha dichiarato che la Russia «rispetterà» l’esito del voto e che nessun negoziato potrà progredire senza la piena partecipazione degli «oppositori» di Kiev. E alla capitale dell’Ucraina ci ha pensato il gruppo russo Gazprom, annunciando che taglierà il gas al Paese dal prossimo 3 giugno se le forniture non saranno pagate in anticipo. Nello stesso tempo però l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa ha fatto sapere che Putin si è detto favorevole ad avviare un percorso per allentare la tensione con la mediazione della stessa Osce.
Il gruppo dirigente di Donetsk dà addirittura l’impressione di voler rendere irreversibile lo strappo. Tra i primi annunci (subito replicato da Luhansk): niente elezioni presidenziali il 25 maggio. Ieri è stato costituito un governo provvisorio e nel ruolo chiave di ministro della Difesa compare il colonnello russo (secondo i servizi segreti ucraini) Igor Strelkov, finora capo delle milizie di Sloviansk. L’autoproclamatosi sindaco del fortino separatista, Viaceslav Ponomariov, chiede esplicitamente alle truppe di Mosca di passare il confine. Può darsi che tutto sia già scritto e che per il Donbass si prepari un futuro simile a quello della Crimea oppure della Transdnistria, annessione o controllo indiretto. Ma nel movimento popolare non tutto è così chiaro.
Vale la pena mettersi in auto e tentare una verifica sommaria davanti ai cancelli della miniera più grande di Shakhtersk, cinquantasei chilometri di pessima strada a est di Donetsk. Alle 14.30 staccano i turnisti della mattina: sei ore per 400 euro al mese, 800 massimo se si accetta di lavorare a 1.300 metri di profondità. Davanti ai cancelli, non si può stare. E allora appuntamento dietro un piccolo negozio che vende birra e taranka, pesce di fiume essiccato: il pranzo di Alexej, 3 anni, di Andrej, 45 anni e di tanti altri uomini e giovani con le palpebre cerchiate dalla polvere di carbone. Un tempo costituivano l’aristocrazia operaia e l’orgoglio di questo territorio. Oggi possono solo resistere e continuare a spremersi per tenere in piedi un sistema industriale obsoleto e inquinante. Non sono loro l’avanguardia del movimento. Però ne fanno parte, forse più per mancanza di alternative che per convinzione. Ci sono quelli, come un giovane in maglione blu che sibila: «Bisogna tornare con la madre Russia». Altri che ragionano di indipendenza, di federalismo. Su una cosa, però, tutti sono d’accordo. Le parole le mette Andrej, gli altri annuiscono: «Prima dei morti di Odessa e di Mariupol si poteva ancora pensare di poter dialogare con Kiev. Ora abbiamo avuto la prova che sono fascisti. Ormai è tardi. Nessuno qui vuole tornare indietro».
Giuseppe Sarcina
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