« Sette anni a Dell’Utri » La condanna è definitiva
ROMA — Ricorso rigettato, sentenza definitiva, condanna confermata. L’ex senatore Marcello Dell’Utri, braccio destro di Silvio Berlusconi prima nelle imprese edilizie e televisive e poi in quella politica, co-fondatore di Forza Italia, deve scontare sette anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa. Per quasi un ventennio, dal 1974 al 1992, è stato il mediatore e il garante di un accordo tra i boss di Cosa nostra e il suo capo, Berlusconi appunto, che ha portato soldi ai primi e protezione al secondo.
Così ha stabilito ieri sera la quinta sezione penale della corte di Cassazione,pochi minuti prima delle 22, nella semioscurità del «palazzaccio» di piazza Cavour e nella stessa aula in cui fu pronunciata, quasi un anno fa, la condanna definitiva dell’ex presidente del Consiglio. Ora è toccato a uno dei suoi principali collaboratori, che però non era presente ma piantonato in una stanza d’ospedale di Beirut, dov’è stato arrestato il 12 aprile su richiesta italiana. Il ministero della Giustizia aveva già presentato la domanda di estradizione, ma ora cambierà il titolo della richiesta: una consegna non più per eseguire una «misura cautelare» di tipo preventivo, bensì per un ordine di carcerazione già emesso ieri sera dalla Procura generale di Palermo per dare corso a una condanna definitiva. Stamattina gli uffici del Guardasigilli invieranno la missiva con l’aggiornamento della situazione a Beirut, dove nei prossimi giorni si avvierà un’altra battaglia, dall’esito incerto. Con altre regole: quelle dei codici libanesi e della diplomazia.
Il destino di Dell’Utri ora non dipende più dalla giustizia italiana, che ha dichiarato definitivamente la colpevolezza dell’imputato. Il quale, immaginando questo esito, s’era dato alla «latitanza preventiva» . Una scelta di cui ieri ha parlato ai giudici supremi uno dei suoi difensori, l’avvocato Massimo Krogh: «È un uomo provato, perché vent’anni di indagini e processi senza conclusioni tangibili fiaccano chiunque e possono far perdere la testa. Con un’iniziativa personale, che io non condivido ma posso comprendere, ha fatto quello che ha fatto…». E l’altro difensore, Giuseppe Di Peri, dopo la condanna aggiunge: «Per l’iter dell’estradizione non cambia molto, vedremo come andrà a finire».
Considerazioni che non hanno inciso sul giudizio finale, dove si cristallizza una situazione di colpevolezza già pronunciata per tre volte nella sentenza di primo grado e nelle due di appello, inframmezzate da un annullamento in Cassazione, due anni fa. Resta intatta l’assoluzione per i fatti successivi al 1992, quindi nel rafforzamento di Cosa nostra assicurato dall’ex senatore non rientra la nascita di Forza Italia. Ma per il resto, attraverso il vero e proprio «accordo» stipulato grazie a lui tra Berlusconi e i boss, «Dell’Utri ha consentito che l’associazione mafiosa consolidasse il proprio potere».
Il patto ha continuato a funzionare anche nel periodo, a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, in cui il braccio destro dell’allora imprenditore milanese s’era formalmente distaccato dalle aziende del futuro premier. «Dell’Utri è sempre rimasto colui che garantiva Berlusconi da Cosa nostra e Berlusconi a Cosa nostra», ha ribadito nella sua requisitoria il sostituto procuratore generale Aurelio Galasso, chiedendo la conferma della condanna. Non solo con la vecchia mafia dei boss Bontate e Teresi, che s’incontrarono con Berlusconi nel maggio 1974, in un appuntamento organizzato proprio da Dell’Utri, ma anche con i Corleonesi di Totò Riina, che tra il 1980 e il 1981 spazzò la leadership palermitana e conquistò il potere dentro l’organizzazione criminale. Stabilendo nuove regole e decidendo lui che cosa fare con gli interlocutori interni e esterni a Cosa nostra. E così, quando nel 1984 i fratelli Pullarà, che si consideravano gli eredi di Bontate, cominciarono a pretendere un po’ troppo da Dell’Utri (e quindi da Berlusconi, che materialmente pagava), il «mediatore» fece presenti le proprie rimostranze, che arrivarono al padrino corleonese. Il quale mise a tacere gli affiliati che avanzavano richieste eccessive, estromettendoli dalle tangenti. Anche questa storia è diventata una prova a carico di Dell’Utri: «Riina preferì tutelare lui rispetto ai suoi capifamiglia, i pagamenti pretesi raddoppiarono perché lo decise lui, ma non risulta che Berlusconi e Dell’Utri se ne siano lamentati», ha sostenuto il pm Galasso. E c’era un motivo non solo economico che spinse il «capo dei capi» a «tutelare» il rapporto con Dell’Utri, com’è scritto nella sentenza confermata: «Riina non aveva fatto mistero del fatto che l’interesse che lo spingeva a curare questo canale di approvvigionamento era anche quello di natura politica. Dell’Utri, per il boss mafioso, rappresentava un contatto determinante con Silvio Berlusconi e dunque, a suo avviso, con l’onorevole Bettino Craxi».
Parole che ripropongono gli intrecci mai del tutto svelati tra mafia e politica, e che da ieri sera sono entrate in maniera definitiva nella storia giudiziaria d’Italia. Chiuso il capitolo processuale, ora se ne apre un altro, per tentare di far scontare la pena al condannato.
Giovanni Bianconi
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