I predatori dei beni comuni
«Il lavoro è un bene comune» era lo striscione che apriva un corteo milanese della Fiom prima che si raccogliessero le firme sui quesiti referendari sull’acqua del giugno 2011. Erano quelli i mesi in cui nell’occidente liberale i «beni comuni» stavano abbandonando le scrivanie di un numero circoscritto di studiosi, per lo più economisti negli Stati Uniti (Elinor Ostrom ed altri) e giuristi in Italia (Commissione Rodotà), ponendo le premesse per divenire importante categoria del dibattito politico, capace di infliggere, con la vittoria del referendum sull’acqua, una delle pochissime sconfitte del modello neoliberale trionfante dalla caduta del Muro di Berlino.
Comprendere il lavoro fra i beni communi non è stata operazione politica priva di critiche, che vennero da quanti ancora credono nel costituzionalismo liberale e dalla corrente di pensiero erede dell’operaismo. I primi hanno fatto leva sulle difficoltà teoriche dell’inserire il lavoro fra i beni comuni. Inoltre, hanno sostenuto che «se tutto è un bene comune nulla è un bene comune», rivendicando così una specie di purezza concettuale per cui i beni comuni non potrebbero essere nulla più che un tetiumgenus ben definito fra proprietà privata e proprietà pubblica. Dall’altro lato, la corrente di pensiero erede dell’operaismo, che ha avviato una importante riflessione sul «comune» (Michael Hardt e Toni Negri), ha evidenziato la tensione, in condizioni di capitalismo cognitivo, fra l’opzione di porre al centro il reddito e l’idea che il lavoro possa essere un bene comune (Andrea Fumagalli).
IL DEBITO ECOLOGICO
Visti gli effetti odierni del progetto di produzione fordista insita nel «Piano Sinigaglia» che, insieme allo Schema Vanoni, utilizzò il denaro del Piano Marshall per rafforzare la produzione d’acciaio a Piombino, Conigliano e Bagnoli e dar vita al nuovo stabilimento Italsider di Taranto, è difficile negare che il lavoro o meglio quel tipo di lavoro sia un «male comune». Un male per il lavoratori, contadini poveri cui fu promesso un futuro migliore rispetto a quello dell’«avara civiltà dell’ulivo» e per l’ intera comunità nazionale persuasa, attraverso un imponente sforzo degli apparati ideologici dello Stato, che la trasformazione brutale di beni comuni fisici e sociali come il paesaggio, l’ambiente, la salubrità delle acque, l’antico sapere contadino ed artigianale in capitale costituisse un progresso. Quel periodo storico venne presentato come boom economico (per enfatizzare il legame con lo «Zio Sam») o come miracolo economico, una locuzione più adatta a convincere i «miracolati» che trascorrere lunghe e dure ore respirando i fumi della trasformazione della ghisa in acciaio fosse un premio di cui bisognava esser grati ai vari protettori politici democristiani che si battevano a Roma per portare lavoro, sviluppo e progresso nelle terre dei cafoni (Pallante).
Taranto è fin dalle sue origini una tragedia del modello di capitalismo definito estrattivo e fondato su economie di scala, su razionalizzazione di processi produttivi nel quadro di un processo decisionale strutturato in modo da non potersi far carico delle esternalità negative, siano esse di carattere ecologico ovvero sociale. A bene vedere infatti, dopo la sbronza «sviluppista» che un decennio dopo la realizzazione dello stabilimento ne decise il «raddoppio» (in realtà la triplicazione avvenuta nel 1971 in spregio alle prime resistenze del Comune di Taranto che cercò di opporsi negando i permessi edilizi), la questione ambientale fu posta proprio dalle maestranze tarantine. La «vertenza Taranto» nei confronti di Italsider si sviluppò nel 1974 ottenendo qualche risultato positivo sotto forma di un accordo contenente una serie di obblighi volti al mantenimento di un ambiente di lavoro più accettabile.
TIPOLOGIA DEL DANNO
Le conoscenze disponibili nei tardi anni Cinquanta (sono del 1959 i primi lavori di sradicamento degli ulivi secolari e dei vigneti di una delle coste più belle del mezzogiorno) intorno a quel modello di sviluppo, che oggi sappiamo bene esser stato sovvenzionato attraverso il «debito ecologico», non erano quelle disponibili oggi. Neppure il libro simbolo dell’ambientalismo, Primavera silenziosa di Raquel Carson, era ancora stato pubblicato ed Enrico Mattei veniva accolto come un eroe ovunque si recasse per proporre i suoi disegni (visionari per l’epoca) di sviluppo estrattivo. Occorre dunque una comprensione storica di più lungo periodo per smettere di presentare Taranto come un conflitto del qui e adesso fra lavoro e ambiente (o salute).
La sensibilità ecologica a livello internazionale inizia infatti ad emergere nei tardi anni Sessanta e dal punto di vista economico le analisi di Fritz Shumacher (in origine allievo prediletto di Keynes) dimostrano come le sole ricette coerenti con le esigenze di un modello economico sostenibile vadano cercate in modelli «piccoli e bellissimi», che privilegiano il lavoro di qualità e la buona distribuzione nelle comunità di riferimento rispetto al modello fordista a alta concentrazione di capitale.
Anche in Italia la sensibilità ambientale stava pian piano emergendo. Sebbene la Legge Merli, prima normativa a tutela dell’ambiente, dovesse giungere soltanto nel 1976, la giurisprudenza di legittimità e di merito aveva iniziato in materia di immissioni industriali (l’articolo 844 del Codice Civile) a considerare il diritto costituzionale alla salute (Articolo 32 della Costituzione) come immediatamente precettivo e soprattutto non comprimibile o bilanciabile con qualsiasi altro interesse pur costituzionalmente garantito come il lavoro o l’iniziativa economica. L’evoluzione di questa sensibilità capace di comprendere il legame indissolubile fra salute ed ambiente, era iniziata con la cosiddetta Legge antismog del 1964 e aveva raggiunto il suo punto d’arrivo con la legge istitutiva del Ministero dell’ambiente nel 1986. In quello stesso periodo i giuristi lavorarono alacremente alla costruzione di nuove tipologie di danni risarcibili, tutte indicative di una emergente sensibilità capace di dare rilevanza al bisogno fondamentale di condurre una vita qualitativa in un ambiente sano al riparo da minacce per la salute psichica o mentale. Si sviluppa così il dibattito sulla risarcibilità del danno non patrimoniale nella sua componente «biologica» (integrità fisica), «morale» (integrità psichica) e infine «esistenziale».
Paradossalmente, l’identità di interessi fra lavoro, salute ed ambiente venne offuscata proprio nel quadro di questa evoluzione giuridica e culturale. La necessità di ancorare la tutela giuridica a diritti soggettivi, pur fondamentali e di rango costituzionale, fece perdere di vista la dimensione collettiva e quella dei doveri sociali, individualizzando il conflitto. Fu così che si insinuò la visione di un contrasto di interessi fra lavoro ed ambiente laddove il primo fu utilizzato tramite una classica strategia ricattatoria, cui il sindacato non riuscì a resistere, come scudo ideologico a tutela del profitto. Da un lato la riduzione della questione ad un conflitto fra diritti ed interessi individuali contrapposti (produrre da un lato, godere tipicamente come proprietario residenziale di aria buona e un bel paesaggio dall’altra) rendeva gli interessi sovra-individuali indirettamente coinvolti (lavoro e ambiente) in conflitto tra loro. In più, lo Stato Sociale proprio in quegli anni dichiarava di potersi far carico del diritto costituzionale alla salute tramite l’istituzione (e siamo alla metà degli anni Settanta) del Servizio Sanitario Nazionale, con ciò spostando la partita nell’ambito del diritto pubblico.
IN CERCA DI RICONVERSIONE
In questo quadro il lavoro (salariato) venne ridotto ad una mera componente del processo produttivo, importante in quanto «lotta alla disoccupazione» e dunque contrapposto alle esigenze di conservazione dell’ambiente visto come entità statica e conservatrice. La dimensione qualitativa del lavoro come processo di emancipazione, collaborazione alle scelte produttive, guardiano delle condizioni di luoghi e della salvaguardia di salute, ambiente e coesione sociale (qui sta l’importanza del lavoro domestico di cura ad oggi non salariato) viene completamente sminuita nella logica fordista, tanto nel caso di attività economica privata quanto nel caso di quella pubblica. Eppure gli appigli costituzionali non mancano, dall’articolo 43 con il ruolo riconoscibile alle «comunità di lavoratori e utenti» all’articolo 46 con il «diritto dei lavoratori a collaborare nella gestione delle aziende».
Negli anni Cinquanta l’ideologia della crescita promossa dallo Stato in prima persona accompagnata da ignoranza della questione ambientale portò alla devastazione di Taranto. Negli anni novanta, la celebrazione ideologica delle virtù salvifiche del privato portò alla vendita al gruppo Riva. Qui però non c’è buona fede perché le conoscenze ecologiche c’erano già tutte ed il dovere dello Stato (Governo Prodi) sarebbe stato quello di farsi carico in prima persona della conversione dell’intera economia dell’area. Infatti, l’immenso sito dello stabilimento di Taranto era già stata dichiarata, per legge, zona ad alto rischio ambientale nel 1994 e la vendita avvenne nel 1995. In più, la vendita della più grande acciaieria Europea, che impiegava oltre 12.000 operai avvenne a prezzo vile, poco più di 700 milioni di euro, nell’ambito di quella immensa dismissione di patrimonio pubblico le cui conseguenze ricadranno per decenni sulle spalle delle genrazioni future. Nello specifico privatizzando non ci si poteva certo liberare del problema ma si moltiplicarono i soggetti coinvolti ed i conflitti di interesse fino a giungere all’attuale stallo.
PRODUZIONE COMUNE
In questo contesto bisogna riflettere sul senso del lavoro come un bene comune, un’esperienza collettiva capace di emanciparsi dall’alienazione fordista e dall’idolatria produttivistica per farsi avanguardia nella trasformazione del capitale in beni comuni. Il lavoro può essere di commoning, dando così senso pieno alla condivisione sociale nelle scelte relative alla produzione, nei processi produttivi, e nella grande conversione ecologica che volenti o nolenti siamo chiamati ad intraprendere. Il lavoro si fa bene comune se recupera la sua dimensione collettiva e la sua soggettività politica diretta, prendendo coscienza prima di tutto delle strumentalizzazioni tragiche di cui è stato vittima. Non esiste un interesse dell’ambiente e della salute contrapposto a quello del lavoro. Esiste soltanto un interesse predatorio della produzione capitalistica, che fa uso della tenaglia fra pubblico e privato per distruggere ogni bene comune, incluso il lavoro.
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