Torino Il ventennio di cambiamento senza metamorfosi

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È dif­fi­cile fare un bilan­cio accu­rato e siste­ma­tico del lungo ciclo libe­ri­sta che ha carat­te­riz­zato la poli­tica delle città dalla crisi del for­di­smo a oggi. Una rozza clas­si­fi­ca­zione tri­par­tita con­trap­pone le città «che ce l’hanno fatta» a quelle che hanno imboc­cato un cam­mino di sta­gna­zione e di declino, inca­paci di ride­fi­nire la pro­pria voca­zione pro­dut­tiva e i pro­pri assetti urbani. In mezzo, le città — pro­ba­bil­mente la mag­gio­ranza — ancora alla ricerca di una uscita dal pas­sato e di un equi­li­brio in grado di auto­so­ste­nersi. Al di là dell’ampia varianza delle per­for­mance urbane, due sono le ten­denze gene­rali che sem­brano emer­gere dalla tra­sfor­ma­zione in corso. La prima è la cre­scente disu­gua­glianza tra i vin­ci­tori e i vinti della «moder­niz­za­zione urbana»: da una parte le città che hanno com­piuto con suc­cesso la tran­si­zione tra­sfor­man­dosi in poli della ricerca e dell’innovazione, capaci di atti­rare capi­tali, talenti, oppor­tu­nità, ser­vizi di eccel­lenza, alti salari; dall’altra, le città che sono rima­ste al palo, depau­pe­rate di cen­tri pro­dut­tivi, di capi­tale umano, di oppor­tu­nità di inver­tire la ten­denza e risa­lire la china. Alla disu­gua­glianza tra le città è andata accom­pa­gnan­dosi una cre­scente disu­gua­glianza nelle città, fatta di pola­riz­za­zione sociale e ter­ri­to­riale, tra zone gen­tri­fi­cate, ric­che di ser­vizi, vocate al buon vivere e al loi­sir, e zone lasciate alla mar­gi­na­lità e al degrado. Que­sta deriva dua­li­stica, che ini­zial­mente sem­brava riguar­dare soprat­tutto le città segnate dall’insuccesso e dal ritardo, tende in realtà a esten­dersi a quei cen­tri — il caso di S.Francisco è esem­plare — dove i nuovi inse­dia­menti di lavo­ra­tori della cono­scenza hanno fatto lie­vi­tare i costi delle abi­ta­zioni e dei ser­vizi al punto da ren­derli inso­ste­ni­bili per la mag­gior parte della popo­la­zione non coin­volta nelle atti­vità di punta.

In que­sto sce­na­rio in rapida tra­sfor­ma­zione, ma in un con­te­sto nazio­nale sem­pre più mar­gi­nale, Torino si pone come realtà inter­me­dia, sospesa tra tran­si­zione e declino, ma con sem­pre più evi­denti segnali di sof­fe­renza. Sulle stra­te­gie di soprav­vi­venza, prive di respiro pro­spet­tico, che ne carat­te­riz­zano oggi lo stile di governo inci­dono non solo gli effetti della sta­gna­zione eco­no­mica degli ultimi anni e quelli indotti dalla «fine del lavoro» gene­rata dalle inno­va­zioni tec­no­lo­gi­che labour-saving, ma anche le scelte e i risul­tati di policy con­se­guiti dal regime urbano che ha gover­nato la città a par­tire dal 1993. Il bilan­cio di quella sta­gione di governo — spesso esal­tata come inno­va­tiva e per­for­mante fino a fare della città e della sua lea­der­ship un modello nazio­nale per la poli­tica urbana se non addi­rit­tura per la poli­tica tout court — è stato in realtà ricco di chia­ro­scuri e di impasse, delu­dente nelle sue pre­tese «rivo­lu­zio­na­rie», comun­que non in linea con gli obiet­tivi ambi­zio­sa­mente dichia­rati dai suoi gover­nanti nei vari piani stra­te­gici. «Cam­bia­mento senza meta­mor­fosi» è la for­mula che meglio sin­te­tizza i risul­tati del ven­ten­nio. Dal ciclo ven­ten­nale la città è uscita strut­tu­ral­mente più debole di come vi era entrata, depau­pe­rata di que­gli anti­corpi eco­no­mici, sociali, e anche poli­tici, che avreb­bero potuto con­tra­starne la decadenza.

Sin dall’inizio di que­sta fase, il gruppo diri­gente locale indi­vi­dua nelle poli­ti­che di cre­scita com­pe­ti­tiva (nella forma di poli­ti­che dell’offerta) la via obbli­gata per supe­rare il modello di svi­luppo indu­stria­li­sta, cen­trato sull’auto­mo­tive e sulla pro­du­zione mani­fat­tu­riera di serie. Che la cre­scita si iden­ti­fi­chi con il bene comune della città, e che dal suo sgoc­cio­la­mento sulla società urbana deb­bano pro­ve­nire le risorse per ali­men­tare il wel­fare locale, non più com­po­nente orga­nica di uno svi­luppo soste­ni­bile ma sot­to­pro­dotto della nuova poli­tica, è un’idea ampia­mente con­di­visa nella Torino di fine-inizio mil­len­nio, tipi­ca­mente in linea con la cul­tura del neo­li­be­ri­smo trion­fante. In que­sta chiave, il com­pito del potere pub­blico è di creare, attra­verso incen­tivi e infra­strut­ture, «un buon clima per gli affari», in modo da man­te­nere e atti­rare nuove imprese, risorse finan­zia­rie e capi­tale umano sul ter­ri­to­rio. Que­sto obiet­tivo stra­te­gico viene per­se­guito attra­verso tre clu­ster di poli­ti­che pub­bli­che: poli­ti­che rivolte a pro­muo­vere la rige­ne­ra­zione urba­ni­stica della città sulle linee del nuovo piano rego­la­tore; poli­ti­che indi­riz­zate a favo­rire e pro­muo­vere l’innovazione tec­no­lo­gica e la dif­fe­ren­zia­zione dell’apparato pro­dut­tivo locale, poten­ziando gli aspetti (le nuove tec­no­lo­gie dell’informazione) e le strut­ture (l’Università, il Poli­tec­nico, i cen­tri di ricerca) legati all’economia della cono­scenza; poli­ti­che, rivolte a svi­lup­pare il set­tore dell’intrattenimento (com­ples­si­va­mente e spesso disin­vol­ta­mente rubri­cate come «cul­tura»), riqua­li­fi­cando il set­tore dei musei, del cinema, del tea­tro, pro­muo­vendo lo svol­gi­mento di grandi eventi perio­dici (i saloni ecc.) e non (le Olim­piadi) in grado di atti­rare turi­sti. Di accom­pa­gnare proat­ti­va­mente que­sto pro­getto di cam­bia­mento urbano si fa carico un’ampia coa­li­zione di gover­nance, arti­co­lata e fles­si­bile ma ideo­lo­gi­ca­mente coesa, aperta alla nego­zia­zione tra la comu­nità degli affari e delle pro­fes­sioni e il potere pub­blico, ma scher­mata verso il basso e refrat­ta­ria ad aprire canali di comu­ni­ca­zione con una cit­ta­di­nanza sem­pre più spo­li­ti­ciz­zata e suddita.

Che il pro­getto incar­nato da que­sto regime di cre­scita urbana non si sia rea­liz­zato che in minima parte — quella legata allo svi­luppo edi­li­zio, al miglio­ra­mento este­tico e alla voca­zione turi­stica e ricrea­tiva della città, in parte dell’Accademia — è oggi più che un sospetto che cir­cola negli stessi ambienti gover­na­tivi, anche se le respon­sa­bi­lità ven­gono pre­va­len­te­mente attri­buite alla crisi eco­no­mica post 2008. Oggi Torino è dram­ma­ti­ca­mente più incerta sul suo futuro di quanto non fosse vent’anni fa. A nostro giu­di­zio, le cause della meta­mor­fosi man­cata sono mol­te­plici e risa­lenti. In primo luogo, la disper­sione delle risorse su un arco troppo esteso di pro­getti, che hanno pri­vi­le­giato l’intrattenimento e l’espansione edi­li­zia, e impe­dito la rea­liz­za­zione di una «Torino poli­tec­nica» capace di rico­di­fi­care i saperi e le risorse tra­di­zio­nali nei moduli dell’economia dell’informazione. In secondo luogo ha pesato l’apporto con­di­zio­nale alla rea­liz­za­zione della core agenda da parte della locale comu­nità degli affari, sospesa tra oppor­tu­ni­smo e atteg­gia­mento riven­di­ca­tivo, a cui ha fatto riscon­tro la rinun­cia dell’élite poli­tica a eser­ci­tare fun­zioni di regia e di guida. In terzo luogo, ha agito da freno la chiu­sura oli­gar­chica della classe diri­gente locale, cri­stal­liz­za­tasi attorno ad alcune strut­ture eli­ta­rie (come le Fon­da­zioni ban­ca­rie) e sele­zio­nata non attra­verso la bat­ta­glia delle idee e la lotta poli­tica (a Torino non si vede da vent’anni una oppo­si­zione decente), ma attra­verso gli ambienti eli­tari e rare­fatti dei milieu cit­ta­dini, nella cre­scente atro­fia ideale e orga­niz­za­tiva dei par­titi locali.

La penom­bra in cui è avvolta la situa­zione tori­nese, il suo stallo stra­te­gico e ideale, pon­gono in risalto il tema che in que­sti anni è stato assente non solo dall’agenda cit­ta­dina ma dallo spi­rito del tempo, a Torino come altrove: quello dell’edificazione di una «città giu­sta», equa e soste­ni­bile, e per­ciò intel­li­gente, capace di mediare auto­re­vol­mente tra il pre­sente e il futuro del lavoro.


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