Ciao Gabo
GABRIEL García Márquez, Gabo per tutti quelli che lo hanno sfiorato nel corso della sua bellissima vita, conclusasi ieri a 87 anni, amava dire che tutti hanno una vita pubblica, una vita privata e una vita segreta. Nel suo caso, nel caso di un uomo simpaticissimo, vitale, seducente, allegro e generoso, nel caso di uno scrittore che ha inventato un mondo, lanciato una moda di raccontare, rappresentato l’ambasciatore e il simbolo di un continente, è difficile dire qualcosa circa la sua vita segreta. Ma certo vita privata e vita pubblica si sono intrecciate in un’unica, sola leggenda, storie e storie si sono fuse in un unico paesaggio avventuroso e magico, ricordi e fantasie si sono coniugate in un monumento al raccontare.
Da tempo le condizioni di Márquez si erano aggravate. La settimana scorsa era stato dimesso dall’ospedale, a Città del Messico, dove era stato ricoverato, ufficialmente per una polmonite, anche se da tempo si parlava di un male più grave, mai confermato dalla famiglia. Ieri sera intorno alle 22 italiane le voci sulla sua morte si sono susseguite sul web, fino alla conferma da fonti vicine alla famiglia. «Mille anni di solitudine e tristezza per la morte del più grande dei colombiani di tutti i tempi», ha detto il presidente della Colombia Juan Manuel Santos.
Nel corso di una delle molte interviste che mi ha concesso a nella capitale messicana, nella sua Cartagena, a Bogotà, all’Avana, attraverso le quali ho avuto la fortuna di diventare una specie di amica di famiglia, o, almeno, così ti faceva sentire lui, Gabo, una volta che si parlava della morte, disse con la sua consueta aria ironica che sì, in aereo alla morte ci pensava sempre, Ma che «seriamente (e intanto sorrideva sornione), l’unica cosa che mi dispiace della mia morte è che non potrò essere lì a raccontarla». E certo lui l’avrebbe raccontata bene. E ci si sente inadeguati a ripercorrere al posto suo la sua vita meravigliosa. Salvo ricorrere ancora a lui, al suo modo di raccontarsi. Per esempio la nascita di Cent’anni di solitudine. «Andavamo da Città del Messico ad Acapulco con la nostra vecchia Opel, io e Mercedes, e i nostri due bambini, Rodrigo e Gonzalo. E come per una folgorazione, mentre guidavo, ho capito come dovevo raccontare la storia, anzi, le storie, che mi seguivano da almeno dieci anni, da quando avevo scritto per una rivista colombiana La Casa de Los Buendía. Apuntes para una novela . Dovevo raccontare le storie come le raccontava la nonna Tranquilina». Il libro, diceva Gabo, era maturo e pronto, «come se qualcuno gli dettasse dentro». Non c’era che metterlo sulla carta. Girò il muso della macchina, tornò a casa, si mise a scrivere, incaricò Mercedes di occuparsi della vita quotidiana, si chiuse in casa e ne uscì un anno dopo. Per campare fece debiti e vendette la Opel. Mercedes, di suo, sacrificò anche l’asciugacapelli. E nel 1967, quando il libro uscì, in Argentina, e fece fuori tutta la tiratura in una settimana, Gabo si ritrovò improvvisamente famoso. «Un’esplosione », diceva, stupito, pensando anche ai cinque libri, tra cui Nessuno scrive al colonnello e I funerali della Mamà grande , che aveva già dato alle stampe, che erano stati ignorati, e che sarebbero risorti magicamente.
Un po’ per celia e molto sul serio diceva anche che lui Cent’anni di solitudine lo odiava. «Lo odio», sosteneva «perché penso che abbia sbarrato il passo agli altri libri. Lo odio perché è diventato un mito e io ho voluto scrivere un libro e non un mito. Preferisco essere ricordato per sempre per L’amore ai tempi del colera.
Quello è il mio libro con i piedi sulla terra. L’altro è mitologia». Quella di Macondo (che altro non è, si scoprì poi, se non il nome di un albero), di Aureliano Buendía, di Ursula che continua a vivere perché non sa di essere morta, di Remedios, di Arcadio. Una mitologia fatta di «ricordi e di sentimenti, ma non della mia vita. È la storia della mia gente, del mio paese, nutrita delle memorie provenienti dalla casa di Aracataca dove viveva la mia famiglia, dove abbandonato da due genitori erranti ho vissuto la mia infanzia in una famiglia di sedici fratelli (anche l’ultimo si chiamava Gabriel)… Il mondo magico della nonna Tranquilina…
Per anni sono stato prigioniero di Cent’anni di solitudine.
Qualsiasi cosa scrivessi, diventava Cent’anni di solitudine ». E allora? «Allora ho scritto qualcosa di assolutamente diverso, L’autunno del patriarca , che è stato un fiasco clamoroso. I lettori volevano Cent’anni di solitudine ».
Amato è stato, e tanto, Gabo Márquez. Girare con lui la Colombia era come viaggiare con Garibaldi a Caprera. Ai semafori la gente gli raccontava delle storie che trovava «degne di Márquez ». Le hostess degli aerei andavano in deliquio. I ragazzini lo inseguivano con copie pirata dei suoi libri – che lui firmava, senza mai tirarsi indietro, con il suo nome e un fiore, a volte autografando anche libri di altri, purché ci fosse un libro di mezzo. Un eroe nazionalpopolare? No, meglio, un eroe internazionalpopolare. E un grande giornalista “empirico” («Non c’è nessuno dei miei romanzi che non abbia una base nel reportage, nella realtà»). E un generoso insegnante, come dimostra la sua esperienza alla scuola di cinema della Fondazione del nuovo cinema latino americano di San Antonio de los Baños, che finanziava grazie ai proventi delle interviste televisive, cinquantamila dollari a botta. «Con me fanno spettacolo sì o no? E io i soldi li giro alla scuola» dove teneva dei vivacissimi corsi di sceneggiatura, in un avvincente ping pong di idee tra il professor Márquez e i suoi affascinati studenti.
E, a proposito di Cuba, Gabo è stato anche l’amico personale (cosa discussa, cosa criticata) di Fidel Castro. Un’amicizia che non amava commentare. Un discorso, quello sul socialismo reale, che cercava di schivare: «Non sono mai stato comunista. Non ho studiato il marxismo, anche perché non pensavo potesse applicarsi a una realtà particolare come quella del Sudamerica. A dire il vero, non ho studiato proprio niente. Quello che so l’ho imparato vivendo, comprese le necessità dell’America latina, compresa la mia simpatia per Cuba e la rivoluzione cubana». Quanto all’amicizia con Fidel nata, raccontava, con uno scambio di libri ( Il diario dell’anno della peste di Defoe e il Dracula di Stoker) è stata «un’amicizia molto personale, che si è tradotta in un’amicizia per il paese».
Il cinema è stato l’amore non sempre corrisposto di Márquez, che da ragazzo è stato allievo del Centro sperimentale a Roma, amico di Zavattini, di Carlo Di Palma e di Pontecorvo, ultimo assistente («il miracolo è avvenuto ») di Blasetti sul set di Peccato che sia una canaglia , sceneggiatore di film come il suo Tiempo de morir e Edipo alcalde trasposizione colombiana dell’ Edipo redi Sofocle («un modello assoluto, una scoperta abbagliante: l’unica storia che conosco in cui l’investigatore scopre di essere lui stesso l’assassino»), ambedue
tiepidamente accolti, ispiratore di film belli e meno belli come Cronaca di una morte annunciata e L’amore ai tempi del colera.
Ma un amore, quello per il cinema, che non ha mai ceduto di fronte al fascino della scrittura. «Quando scrivo» diceva in quella sua prosa sempre poetica, anche quando parlava nel suo deliziosamente imperfetto italiano, «sono un uomo libero, solitario nella mia isola. Non devo farmela con nessuno, tantomeno con i soldi. Sì, credo di aver scritto Cent’anni di solitudine contro il cinema, per dimostrare che con la scrittura si può fare di più». E tantissimo ha fatto. Inventando meravigliose favole del reale che sono diventate una moderna mitologia per tutti. Dando voce a un continente. Restando fedele alla sua terra. Unico tra i premiati del Nobel (signore a parte) a presentarsi alla cerimonia di Stoccolma non con il frac, che Gabo considerava il vestito dei morti e dei becchini, ma con il caraibico liquiliqui , la camicia bianca a piegoline che, con lui, è diventata la bandiera della cultura dello Stato libero di Macondo.
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