F35, un affare globale. Anzi locale
Facendo nostro il giudizio che ne ha dato, nell’ormai datato 2008, la statunitense Rand Corporation, «non può girare, non può salire, non può correre», potremmo chiederci a che serve, allora, un F35. A fornirci più di un elemento di riflessione – oltre che una sistematizzazione delle informazioni e un’analisi critica – ci pensa un agile pamphlet di Francesco Vignarca, F35 – L’aereo più pazzo del mondo (Round Robin, pag. 144, euro 13). L’autore, impegnato da anni nei movimenti pacifisti e antimilitaristi, è tra i promotori della campagna Taglia le ali alle armi che, prendendo spunto dalle mobilitazioni territoriali a Cameri, dove ha sede la “fabbrica” dei cacciabombardieri, e dalle controfinanziarie di Sbilanciamoci, ha portato all’attenzione dell’opinione pubblica una questione che altrimenti sarebbe passata sotto silenzio, come già era accaduto per un altro fallimentare programma di riarmo: quello degli Eurofighter.
Vignarca mette in luce come la campagna contro gli F35 si sia sviluppata su un duplice piano: non solo locale e nazional-globale, ma pure su quello della mobilitazione e allo stesso tempo dello studio, dove le competenze sono state messe al servizio di una causa. Tutto quello che sappiamo in Italia sugli F35, infatti, ci arriva da questa «intelligenza collettiva» che in pochi anni ha collezionato manifestazioni e documenti provenienti dagli Stati Uniti, coniugando pacifismo radicale e analisi scientifica. Tutto è passato al setaccio: cifre discordanti pur se provenienti da diverse fonti ufficiali, dichiarazioni enfatiche puntualmente smentite dai fatti (come i 10 mila posti di lavoro ridotti a 600, nella più ottimistica delle ipotesi), incongruenze macroscopiche.
Nella premessa, Vignarca riepiloga l’intera vicenda: come si è passati dalle discussioni nella Camera del Lavoro di Novara del 2006, con «elementi della neoautonomia, del cattolicesimo di base, del pacifismo tradizionale, del sindacalismo di base, di un’associazione culturale di ispirazione libertaria», alle «prime serate» televisive e ai dibattiti parlamentari del 2013, quando sono state approvate alcune mozioni che chiedono, in forme e misure diverse, lo stop al programma. Mozioni votate a larghissima maggioranza e puntualmente disattese, visto che gli acquisti dei componenti, stando a quanto continua a denunciare in maniera puntuale la Rete Disarmo, proseguono con il pilota automatico, senza che dal governo nessun premier si azzardi a sospenderli.
In buona sostanza, ci troviamo di fronte a una sorta di contro-guida agli F35, nella quale un antimilitarista può trovare le sue buone argomentazioni per opporsi al programma Joint Strike Fighter e andare a braccetto con un più pragmatico sostenitore della spending review. Perché spendere infatti 10,8 miliardi (che lievitano a 14 se si considera la manutenzione successiva) per un aereo che, come dice la Rand Corporation – un think tank, è bene ricordarlo, vicino ai repubblicani e non ostile al pensiero che gli americani siano i gendarmi del mondo – «non può girare, non può salire, non può correre»? Per quale motivo insistere in un programma che altri paesi occidentali — si veda l’Olanda — stanno ridimensionando drasticamente? Quale ritorno economico ci si può aspettare dall’assemblaggio e dalla manutenzione in Italia quando è ormai palese che ogni promessa è stata già disattesa? Sono queste le domande, al netto di ogni istanza pacifista, che il libro di Vignarca consegna al lettore.
Al rovescio, qualche sostenitore accanito potrebbe obiettare che il programma Joint Strike Fighter serve eccome. A far girare l’economia militare, a far salire gli incassi della Lockheed, a far correre le guerre.
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