Se Obama è costretto a riscoprire l’Europa
SE LA prossima mossa sarà l’invasione russa dell’Ucraina orientale, come teme Washington, l’America potrà contare sull’Unione europea per una risposta più forte? Che cosa farà la Nato? Vladimir Putin ha costretto Barack Obama a riscoprire una sorta di centralità dell’Europa.
Apochi giorni dal suo viaggio nel Vecchio continente con tappe all’Aia, Bruxelles e Roma, la tournée del presidente americano assume un significato nuovo. Poteva essere routine, invece diventa una successione di vertici di emergenza, dal G7 all’Alleanza atlantica. Con il rilancio della Nato all’ordine del giorno. “Gelida rivalità” con la Russia. È questo il neologismo coniato dal New York Times.
Cerca di descrivere una crisi Est-Ovest che non può essere il ritorno alla guerra fredda, e tuttavia ha qualche analogia con le tensioni Usa-Urss del passato. Su una cosa c’è consenso bipartisan negli Stati Uniti: l’annessione della Crimea “chiude” un periodo di un quarto di secolo che si era aperto con la caduta del Muro di Berlino. L’espansionismo di Putin spegne definitivamente le illusioni più tenaci di questi 25 anni. La “fine della storia” teorizzata da Francis Fukuyama, cioè l’avvento di un unico modello vittorioso (capitalismo di mercato più liberaldemocrazia) era già stata smentita: l’11 settembre 2001 e il fondamentalismo islamico, l’ascesa di nuove forme di modernità illiberale in Cina e in Russia, avevano travolto quelle ingenuità. Restava tuttavia in Occidente la tenace illusione che il terzo millennio fosse un’èra in cui le rivalità diventavano prevalentemente di tipo geo-economico. L’aggressività della Cina nei mari d’Oriente verso i propri vicini, e il comportamento di Putin in Crimea, riportano in primo piano gli scontri di potere in senso tradizionale, dove è la forza militare, lo “hard power”, a misurare le avanzate di progetti neoimperiali.
La destra repubblicana, e perfino tanti esperti di politica estera in campo democratico, ora infieriscono sul periodo “naif” di Obama. Molti rievocano l’infausto slogan lanciato cinque anni fa all’inizio del suo primo mandato, quel “reset” con cui questo presidente voleva indicare una ri-partenza da zero, una rifondazione dei rapporti Washington-Mosca. Poi quell’altra gaffe, quando in piena campagna per la rielezione (2012) Obama aveva confidato a microfoni spenti che dopo il voto avrebbe potuto mostrarsi “più flessibile” nel fare concessioni alla Russia (sul rinvio del dispiegamento di batterie anti-missili in Polonia). Nell’uno e nell’altro caso l’interlocutore di Obama era Dmitri Medvedev. Il primo errore dunque fu non capire che a Mosca contava sempre e soltanto Putin, anche quando presidente era l’altro. Ma imputare oggi al solo Obama tutte le debolezze, è ingiusto. Con George W. Bush, e la guerra di Putin contro la Georgia, c’è un precedente simile: sanzioni occidentali modestissime, gesti poco più che simbolici, anche se allora alla Casa Bianca e al Dipartimento di Stato c’erano i falchi neoconservatori. Se Putin ha avuto la prova che può minacciare, intimidire, aggredire gli Stati vicini e farla franca, questo avvenne già nel 2008 in Georgia.
Da allora è stato un susseguirsi di equivoci, fraintendimenti, delusioni. Dall’asilo a Edward Snowden fino alla Siria, la diplomazia americana si è accorta di avere a che fare con un rivale temibile, formatosi proprio nella cultura della guerra fredda. E con una variante ideologica che gli americani stentano a capire: al posto del comunismo c’è un nazionalismo russo che riscuote simpatie in altri giganti emergenti, riecheggia nel nazionalismo cinese, indiano, brasiliano, arabo. Tutti hanno recriminazioni contro l’America o contro le vecchie potenze coloniali d’Europa occidentale. Nazionalismo e anti-americanismo, anziché isolare Putin gli allargano i campi di alleanze. Non solo la Cina ma anche altri governi dell’ex Terzo mondo, si guardano bene dal condannare l’annessione della Crimea.
Invece del “reset”, l’America ripiega sul tasto del “default”: il software automatico che ti riporta all’opzione tradizionale. L’Europa occidentale torna ad essere una sponda, dopo cinque anni in cui Obama aveva preferito rivolgere verso l’Asia la sua attenzione strategica. Diventa urgente ridefinire un ruolo per la Nato. Convincere gli europei in piena austerity che anche le armi contano, per dissuadere Putin. Obama ha cominciato col mandare il suo vice Joe Biden in Polonia e nei paesi baltici: gli Stati di frontiera, i più spaventati, quelli che per primi hanno bisogno di essere rassicurati sul fatto che la Nato proteggerà i suoi membri. Un’altra novità sono le lunghe e intense telefonate tra Obama e Angela Merkel: dimenticate le irritazioni bilaterali sul Datagate, la cancelliera che visse da giovane nella dittatura comunista della Germania Est ora diventa la sponda decisiva per l’America. E tuttavia non sfugge alla Casa Bianca che l’arma delle sanzioni economiche è invisa agli europei: finché non si affrancano della loro dipendenza energetica da Mosca, le sanzioni sono un danno per tutti e non solo per chi le riceve. Il
Wall Street Journal sottolinea che nel bel mezzo della crisi ucraina dall’Italia si è ufficializzato l’ingresso del colosso petrolifero Rosneft in Pirelli. Gli europei avranno mai il coraggio di recidere i legami pericolosi con Mosca? Un infausto precedente risale proprio al 2008. Allora gli americani provarono a ventilare l’ipotesi di un rapido ingresso nella Nato per Georgia e Ucraina. Ma da Berlino e Parigi venne un no deciso. Non se ne fece nulla. Se dovesse accadere ancora una volta qualcosa di simile, la debolezza atlantica darebbe un segnale di via libera a Putin.
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