Marco Revelli scrive a Fausto Bertinotti
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Nonviolenza, movimenti, sinistre al governo
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Caro Fausto,
scusa l’intrusione. Non avrei voluto coinvolgerti in una discussione tutto sommato «astratta» in questo momento delicato, se il precipitare della situazione, nelle ultime settimane – diciamo da Vicenza in poi – e alcune indiscrezioni giornalistiche non del tutto fedeli, non mi avessero fatto sentire l’urgenza di una sorta di «verifica dei valori» da noi condivisi, proprio in ragione di quella amicizia e di quella stima personale che, per quanto mi riguarda, non sono mai venute meno nei tuoi confronti.
Parto da lontano. Quando più di tre anni fa, a Venezia, convocati da Paolo Cacciari, avviammo, tutti insieme, il discorso sulla «nonviolenza», sapevamo benissimo che non sarebbe stato un percorso agevole. Che avrebbe richiesto un impegno non formale. La disponibilità a rimettere in discussione molte antiche certezze. Insomma, a «destabilizzarci». Sapevamo che la «nonviolenza» non è un semplice ornamento, da esibire per avere accesso ai salotti buoni della cultura conforme, né il segnale dell’abbandono di orgogliose radicalità in nome di una mite riconciliazione con l’esistente; ma al contrario, come hai scritto tu, nel volume comune firmato insieme a Lidia Menapace, «la condizione essenziale» di una più profonda e dispiegata «radicalità degli obiettivi». Sapevamo anche che il discorso della «nonviolenza» non punta solo «in basso», alle pratiche di movimento, ma anche, in forma più ambiziosa, chiama in questione ciò che muove «in alto», le logiche degli Stati e la loro arrogante pretesa all’esercizio del monopolio della forza. Che, in altre parole, non mira solo a convincere gli amici di Luca Casarini ad abbandonare i caschi nei cortei, ma anche gli uomini del ministro Parisi ad abbassare le armi, e a svuotare i loro ben più micidiali arsenali. Magari non subito, certo, con gradualità, ma con fermezza.
Sapevamo, soprattutto, che quel discorso – nato dall’irruzione del «movimento dei movimenti» e dalla necessità di riconoscerne il valore «costituente» – trovava un punto fermo, irrinunciabile, impegnativo al di là delle circostanze, nel rifiuto della guerra. Di ogni «politica di guerra». Nella necessaria separazione lessicale tra i due termini – guerra e politica – fondata sulla convinzione che con la guerra, e nella guerra, non c’è politica accettabile. Che là dove la politica deve contaminarsi con la guerra – accettarne anche solo parzialmente i mezzi, muoversi sul suo terreno con le sue logiche totalitarie – finisce per perdere se stessa: per rovesciarsi da possibile «cura» in vettore essa stessa della malattia. Era davvero una rottura – cito ancora le tue parole – «epistemologica e di linguaggio»: una rivoluzione copernicana nel modo tradizionale di concepire la politica [lo «statuto» della politica], fino ad ora associata inscindibilmente al mezzo specifico della «forza», alla crucialità dei «rapporti di forza», al primato della dimensione «polemica». Era – almeno io la considerai così – la definitiva rottura con quel «realismo irrealistico» che, nel corso del Novecento, aveva generato tante tragedie [in primo luogo quella, davvero catastrofica, del «socialismo reale»]. Il congedo convinto da quell’«etica dei risultati» tipica di chi è disposto a ricorrere a qualunque strumento, per brutale, disgustoso o immorale che esso sia, purché capace di assicurare la vittoria e il raggiungimento degli obiettivi voluti, salvo accorgersi, regolarmente, che questi erano andati perduti nel corso della «battaglia», insieme all’umanità di chi li aveva perseguiti per quella via.
Sembrava davvero che si potesse «voltar pagina», non solo negli schemi concettuali, ma nei comportamenti concreti, nel sistema delle relazioni, all’interno del partito come all’esterno. Come dire? Nell’«antropologia» dei soggetti politici: nel modo reciproco di atteggiarsi, di prestarsi ascolto, di rispettarsi a vicenda, di praticare i valori, fuori dal clima da caserma degli antichi apparati organizzativi «bellici » o «bellicosi». Di discutere, confrontarsi, anche contrapporsi, senza ostilità. Perché – anche questo ce lo dicemmo a Venezia, e subito dopo – il «paradigma della nonviolenza» è esigente: implica un impegno personale [«soggettivo», si direbbe con parola non sempre gradita]. Un «lavoro su se stessi». Una pedagogia del rispetto che esclude i rapporti muscolari, le tecniche di azzeramento delle ragioni dell’altro, le scomuniche e le chiusure. Quale che sia la posta in gioco: tanto maggiore quanto più alta questa è. Ora, nessuno di noi si nascondeva il grado di difficoltà di questo discorso. Il suo carattere prevalente di idea regolativa, più che di codificazione imperativa. Per quanto mi riguarda, immaginavo perfettamente che la sua messa in pratica avrebbe implicato ampi margini di compromesso, di mediazione.
Capacità di pazientare. Anche di accettare elevati livelli di ambivalenza e persino di ambiguità. Tanto più in una situazione come l’attuale, paurosamente in sospeso tra il non più e il non ancora: con una politica interamente racchiusa negli involucri del passato e una serie crescente di problemi in attesa di risposta proiettati in un futuro vertiginoso. Per questo non mi sogno nemmeno di far precipitare l’intero repertorio valoriale del tema della nonviolenza sulle scelte politico-istituzionali di questi giorni. Non pretendo certo, cioè, che quello statuto ideale valga come codice imperativo nei labirinti dei percorsi parlamentari. Sono, come tutti voi, anch’io preda del dilemma irresolubile della scelta tra «due mali »: l’appoggio a una missione di guerra [perché, non raccontiamoci balle, questo è l’Afghanistan] e la caduta di un governo che non considero, personalmente, «amico», ma che lascerebbe il posto a uno certamente «nemico». La resa consapevole della politica alla guerra, e la resa forzata a un governo di guerra.
Sinceramente, se fossi al vostro posto [in un qualche ramo del parlamento] non saprei su quale corno sciogliere il dilemma [l’unica cosa che mi viene in mente sono le parole di Fabrizio De André, in «Nella mia ora di libertà», rivolte ai giudici: «Se fossi stato al vostro posto/ ma al vostro posto non ci so stare»]. Dunque non la scelta, dura, penosa, quale che essa sia, rischia di dividerci [comunque si paga un prezzo…]. Quello che invece mi ha turbato, e ferito, nella vicenda, quello che trovo francamente inaccettabile, e che mi pare contraddica tutti i passi avanti fatti insieme, è il modo con cui il tuo partito, e la stragrande parte delle forze politiche del centrosinistra, e dei giornali ad esso legati, ha affrontato e liquidato il problema: liquidandone i portatori. Scatenando un’ondata scomposta di contumelie e di denigrazioni sui pochi, pochissimi, che hanno sciolto il dilemma su un versante diverso da quello della subordinazione alla stabilità del quadro politico.
Mi ha colpito, qui, il linguaggio [altro che «rottura linguistica»], in linea con la peggiore tradizione autoritaria- burocratica. È ricomparsa ad abundantiam [come il riso sulla bocca degli stolti] l’espressione – che speravo francamente estinta – «anime belle», rivolta ai fautori di un rifiuto della guerra «senza se e senza ma», usata con particolare acrimonia da tanti, troppi esponenti del Prc e dei Comunisti Italiani; impiegata con un gusto particolare, come di chi, dopo averla per troppo tempo subìta, può finalmente scagliarla sul capo di un altro, ingenuo malcapitato, col gusto di essere finalmente tra i cacciatori anziché tra i cacciati. Di poter finalmente partecipare alla gara venatoria del realismo politico, dopo la mordacchia di un idealismo mal sopportato. È ritornata, con intento denigratorio, l’accusa di «testimonianza» per le posizioni minoritarie. D’irresponsabilità [senza tener conto che si può essere «responsabili» verso una pluralità di valori, non necessariamente quello soltanto scelto dalla direzione di turno ed elevato a linea per tutti: in questo caso la stabilità di governo].
Sono ritornate le insinuazioni, le calunnie, le rivelazioni sussurrate nei corridoi. La tentazione della delegittimazione morale dei dissidenti, di compagni con cui si sono fatte infinite battaglie, e che di colpo diventano invece «nemici»: l’insinuazione della loro dipendenza da «centrali straniere», degli accordi sotto banco, di transazioni inconfessabili. E quegli orribili sorrisetti di sufficienza, come se l’ultimo peone senatoriale, per il solo fatto di essere dalla parte dei più, fosse di colpo nobilitato di fronte al reprobo infame [e infamato]. Vien da chiedersi – si parva licet… e in forma certo paradossale – come avrebbero guardato [e trattato] costoro i «poveri» Karl Liebknecht e Otto Rühle [«anime belle»?] che, nel dicembre del 1914, da soli, nel gruppo parlamentare della Socialdemocrazia tedesca, ruppero la disciplina e votarono contro i crediti di guerra.
Ecco, tutto questo, con l’essenza del discorso sulla «nonviolenza» non solo non c’entra nulla, e fa violentemente a pugni, ma segna un contraccolpo devastante: come se, dopo aver salito a fatica i gradini di una scala ripida, d’un colpo, in un paio di settimane di follia, si riprecipitasse al fondo. E tutto il lavoro conquistato fosse azzerato. Da questo punto di vista, credimi, sarebbe bene che, autorevolmente, venisse un segnale forte di arresto di una pratica che, lo sappiamo bene, esattamente come per la violenza, degrada più chi la mette in opera che chi la subisce. Allo stesso modo dell’amica Lidia Menapace, che giustamente pretende di essere rispettata per le posizioni assunte [e a cui va tutta la mia personale solidarietà per gli insulti subìti] credo che, in una chiave nonviolenta, anche chi ha assunto posizioni eterodosse meriti rispetto per ciò in cui crede, e il giusto spazio sulla stampa di partito [che gli è stato a mio avviso ingiustamente negato] per le proprie motivazioni. Non sarebbe un bel segno di mutamento? La prova che chi proclama che «un altro mondo è possibile», poi riesce a evitare davvero di replicare all’infinito i peggiori vizi della propria storia, da nessuno emendandosi, come sembrano invece aver fatto finora le varie schegge partitiche della diaspora comunista novecentesca, Prc compreso.
Né mi convince – devo dirlo – la metafora sinfonica del coro proposta dall’amica Rina Gagliardi, e piaciuta a così tanti deputati e senatori e funzionari di vario livello. L’idea che per ottenere una buona esecuzione musicale – una perfetta armonia – occorra mantenere, ognuno, una rigida, totale disciplina, e una subordinazione piena di ogni parte al tutto che, solo, ne garantisce l’efficace operare. Non mi convince per varie ragioni. Intanto perché quella metafora è solo apparentemente dolce [cosa più dolce di un’armoniosa aria musicale?] ma, nella sua sostanza, evoca un’anima durissima. Un’idea della disciplina in ultima analisi feroce e senza spiragli: chi stecca, non c’è dubbio, è fuori. Con altrettanta, e forse maggiore efficacia potrebbe essere sostituita da altre metafore, altrettanto confacenti anche se più sgradevoli: con il reparto di una fabbrica fordista, dove chi non segue il ritmo della catena di montaggio è considerato alla stregua di un sabotatore.
Con il plotone d’assalto impegnato in una missione mortale, dove l’esitazione di uno può essere la fine di tutti. Se agli allegri cantori di Rina sostituisci gli uomini in tuta blu o in mimetica, come vedi, il risultato non cambia. E infatti, la metafora militare è esattamente quella che uno scienziato sociale come Roberto Michels, all’inizio dell’altro secolo, impiegò per descrivere le logiche interne al partito di massa [alla Socialdemocrazia tedesca]: i meccanismi che lo portarono, in quanto «partito militante», organo di combattimento, a diventare come un enorme «martello nelle mani del proprio presidente», secondo linee gerarchiche e apparati disciplinari propri delle macchine belliche, e che – in questo modo – spiegano appunto la metamorfosi del «partito della democrazia » in struttura oligarchica. Se si legge la sua «Sociologia del partito politico», scritto nel 1911, c’è da farsi drizzare i capelli sulla testa.
Ma c’è poi una seconda ragione, altrettanto sostanziale, che mi porta a diffidare di quella metafora: ed è il fatto che, nel caso del coro, o dell’orchestra [ricordi uno degli ultimi film di Fellini, dove quell’analogia fu usata spregiudicatamente in senso antisindacale?], si tratta di «eseguire» una musica già scritta. L’opera d’arte sta fuori, è già stata creata, è firmata da altri ed è immodificabile dagli esecutori se non per qualche sfumatura, decisa comunque dal Direttore, non dai maestri cantori. Quelli devono solo conformarsi il più fedelmente possibile. Ora non è la mia [e, ne sono certo, nemmeno la tua] concezione della politica, che non può che essere creazione continua, partecipazione, adesione non formale. E se, tutto sommato, potrebbe essere in qualche misura difesa in epoche di stabilità, quando le cose sono chiare, precisi e condivisi gli obiettivi, discusse e approvate le premesse e le finalità, mi sembra francamente improponibile in tempi di crisi della politica.
D’incertezza radicale. D’assenza di fondamenti e di esigenza di «rifondazioni» ab imis. In epoca di dubbi quanto mai legittimi. E di ricerca a tentoni. Chiedere di suonare la vecchia musica con la disciplina e la fedeltà del monaco gregoriano in tempi come questi mi sembra, francamente, suicida. Siamo giunti così al cuore della nostra «verifica». Avevi – scusa se continuo a citarti – formulato il concetto in modo esemplare a Venezia quando, a proposito della «ricerca» avviata, avevi affermato che «noi viviamo il tempo della crisi della politica». E subito dopo aggiunto: «Far finta che questa dimensione non esista e continuare per la nostra strada indifferenti a questa presa di coscienza, vuol dire andare a sbattere contro un muro, correre il rischio della separazione dei movimenti dalla politica e della morte sostanziale della politica stessa». Giustamente facevi centro sul concetto di «separazione», come nucleo profondo di quella crisi. Sul rischio di una frattura incomponibile, tra i «movimenti» e la «politica», dicevi. Io preciserei: tra la società e la politica. Tra i «cittadini», nella loro dimensione culturale più generica, e la «sfera politica». Tra i territori e quello che sempre più assomiglia a un «ceto» separato e lontano, che decide ma non ascolta. Che parla un linguaggio gergale e autoreferenziale, e non produce più identificazione e senso. Quel fossato, in questi tre anni, non si è ristretto. Si è allargato a dismisura. Né l’alternanza istituzionale del 2005 ha migliorato le cose. Per certi versi le ha peggiorate. C’è una solitudine dei territori e delle «persone» [quelle vere, in carne ed ossa, che nei territori spendono e tirano a fatica le loro vite, non quelle della rappresentazione virtuale istituzionale e mediatica], che inquieta e spaventa.
Personalmente l’ho chiamata: «crisi della rappresentanza ». Rottura di quel residuo cordone ombelicale che, nell’altro secolo, aveva dato ossigeno alle nostre democrazie. Che faticosamente, stentatamente, aveva tradotto e riprodotto dentro l’arena istituzionale del «campo politico», umori, interessi, passioni e sentimenti che si agitavano nelle pieghe della società. Mi pare che quel cordone si sia spezzato. Che – come ho scritto sul manifesto – sempre più ai rapporti «verticali» tra rappresentanti e rappresentati, tra governanti e governati, orientati a una pur debole logica di mandato, si vadano sostituendo i legami «orizzontali» dei governanti fra di loro, nell’ambito delle coalizioni di governo e nelle diverse agenzie transnazionali, orientati a solidarietà di ruolo, a conformità funzionali. Non risponde forse a questa logica l’editto di Bucarest, con cui Prodi ha liquidato le ragioni di un intero territorio e di una buona fetta dei propri elettori in forza di un labile, labilissimo «impegno internazionale», evidentemente ritenuto più «vincolante» e «imperativo» di quello assunto con i propri cittadini? E non ne è clamoroso esempio il caso della Val di Susa e della Tav, imposta con ogni mezzo, senza reale attenzione e ascolto, con arrogante presunzione, dall’alto, con la semplice motivazione che l’Europa [quale?] ce lo chiede? C’è, mi pare, un «vincolo» posto sul vertice della piramide, una sorta di «blocco» della partecipazione, un sequestro delle facoltà decisionali nelle mani degli esecutivi, che taglia alle radici il rapporto di rappresentanza. E lo sostituisce con una degradata logica di «rappresentazione», in cui ceto politico e ceto giornalistico, poteri istituzionali e poteri mediatici si fondono, inestricabilmente, nell’elaborare il medesimo racconto sociale, l’unico dotato di corso legale, l’unico accettato come «realtà» [più «reale» di quello che ognuno sperimenta nella propria vita materiale, degradato a soggettività inerte, a fallimento personale, a «struggle for life»…].
Possiamo ragionare a lungo sulle cause di tutto ciò. Certamente un punto di origine sta nella sciagurata deriva verso il sistema elettorale maggioritario, inaugurata all’inizio degli anni novanta come espediente per deviare la domanda di autoriforma della politica su un [falso] terreno istituzionale. Quella «riforma» ci ha regalato il berlusconismo, non come semplice forma politica [transeunte] ma come antropologia. Come linguaggio. Come modo di dare volto e voce – «rappresentazione», appunto – ai peggiori vizi privati degli italiani [la volgarità, l’egoismo, il farsi i fatti propri senza guardare in faccia nessuno, il frodare il fisco e corrompere i giudici], «sdoganandoli ». Rappresentandoli, sul palcoscenico nazionale, come possibili pubbliche virtù. Comunque come forme accettabili. Un secondo fattore – cruciale – è stato lo sfaldamento delle grandi aggregazioni sociali. Di quelle che con linguaggio gramsciano si chiamavano «blocchi sociali» – «classe operaia», «ceto medio», borghesia industriale fordista… – e delle loro organizzazioni di massa di rappresentanza degli interessi. La polverizzazione sociale post-fordista, la marcia accelerata verso la «società liquida» [la liquefazione di tutti i legami sociali e di tutte le solidarietà stabili], l’individualizzazione galoppante, l’atomizzazione competitiva: tutto ciò ha scavato sotto le fondamenta del rapporto di rappresentanza un baratro, in cui continuiamo, rapidamente, a scivolare. E poi, la globalizzazione: l’esplosione dello «spazio nazionale», la rottura dei grandi contenitori statali, il primato della logica dei flussi, per sua natura borderless, su quella dei luoghi… che erodono le possibili autonomie decisionali delle classi politiche nazionali. Le sottopongono a vincoli inediti, trasversali, indipendenti dai propri popoli e dalle proprie genti.
Tante ragioni, dunque. E altre ne potremmo aggiungere: tante da farne, magari, un seminario. Ma le conseguenze, queste sì, sono gigantesche. Rina mi contesta una sorta di «catastrofismo». Si turba per i riflessi «apocalittici» che filtrerebbero da queste analisi. Ma credo che davvero gli effetti di tutto ciò sulle consolidate forme della politica non possano essere sottovalutati. Né bypassati con escamotages tattici. Né, tantomeno, velati dietro linguaggi formalizzati, sempre più simili a quelli orwelliani, fatti per nascondere le cose anziché per nominarle. E alla lunga autodistruttivi per chi, impiegandoli, finisce per crederci, e disegnarsi un racconto di comodo [penso alla famosa «conferenza di pace», tanto per non essere reticente]. Il fatto è che una parte consistente della strategia delle sinistre che si definiscono radicali mostra la corda [a cui rischia di finire appesa], in particolare là dove affida alla propria presenza istituzionale la possibilità di tradurre [o, più spesso, far ascendere] le istanze prepolitiche dei movimenti nel cerchio magico della decisione politica. Di elevare al livello «alto» dell’efficacia le ragioni ideali che maturano «in basso». Mostra i propri limiti perché quello spazio un tempo attraversabile dalla rappresentanza sociale oggi tende a chiudersi, più o meno ermeticamente. A seguire altre linee di legittimazione [non più fondata sul consenso di cittadini trasformati in spettatori, ma sull’approvazione dei partner di pari livello, interni ed esterni]. Ad assumere un carattere sempre più rigidamente «oligarchico» – da «democrazia a porte chiuse», come sempre più insistentemente, in queste ultime settimane, Prodi cerca di imporre ai «suoi» ministri e ai partiti della «sua» coalizione. Oggi, non neghiamolo, quello spazio è più chiuso di un mese fa, e con per colpa di Turigliatto. Perché quella è la deriva prevalente in quasi tutto lo schieramento politico e in quella che viene presentata come la «logica delle cose».
Non è questione di contingenze. Né solo del nostro centro sinistra. Né solo italiana. È, mi pare, una deriva generale, per lo meno dell’intero Occidente, da quando ha assunto – volente o nolente – la forma e la cultura della guerra permanente. È la questione di fondo della inedita «spazialità» della politica, che vede, forse per la prima volta dalla rottura che ha dato inizio alla modernità, i diversi soggetti muoversi in «spazi diversi» e separati, compresenti nello stesso tempo ma distinti da logiche abissalmente diverse, da codici talvolta incompatibili: «spazi locali », dei territori, delle comunità di luogo, se vogliamo, dove si dispiega e si consuma la vita materiale delle persone, i rapporti faccia a faccia, l’esperienza di un habitat non più dato naturalmente ma vissuto come sempre più a rischio, sfidato dai flussi di varia provenienza, minacciato dalla liquefazione dei legami, avvelenato dalle solitudini o riscattato dalla partecipazione diretta; e poi «spazi globali», sconfinati, estremi eppure, oggi, ben visibili, dove di profilano le vere questioni «prime» del futuro che incalza, la sopravvivenza della specie, il destino del pianeta e dei suoi elementi fondamentali, dell’acqua, dell’aria, della terra, che «finiscono», che si fanno risorse scarse, da dividere secondo una nuova logica di sobrietà o da contendersi con i mezzi distruttivi della guerra e dell’aggressione… In mezzo lo «spazio nazionale» [quello che tu, portando la croce, presiedi]: spazio «esploso», in qualche misura reso inerte, svuotato, neutralizzato dalle spinte che vengono dall’alto – e dal di fuori – e da quelle che vengono dal basso – da «di dentro» -, ancora fiero delle proprie antiche prerogative, del passato monopolio delle decisioni collettivamente impegnative, orgoglioso dei propri fasti trascorsi, e per questo sempre a rischio di autoreferenzialità. Di chiusura al proprio interno. Di usurpazione dei linguaggi e delle rappresentazioni del mondo. Apparentemente il più sicuro di sé: quello a cui tutti i media e gli osservatori [e noi stessi, quando ci sentiamo incapaci di partecipare in prima persona] continuano a guardare come al centro del mondo pubblico. In realtà il più a rischio di decomposizione e di asfissia.
Bisognerà ben imparare, prima o poi, a «governare » questo inedito «multiversum» spaziale. A regolare i rapporti tra questi tre livelli del nostro spazio pubblico, accettandone la polifonicità. La molteplicità dei discorsi e dei racconti. E anche dei valori di riferimento. Nasce da questa incapacità di gestione del pluralismo spaziale buona parte degli equivoci che ci dividono in queste ore: la sensazione – espressa di recente, con alzata d’orgoglio, da Lidia Menapace – che anche un solo appello al rifiuto assoluto della guerra, formulato da chi sta nel «terzo spazio», in quello «presbite » dei movimenti globali, suoni a imposizione autoritaria [e tendenzialmente violenta] sulla autonomia dei parlamentari [di chi abita il «secondo spazio»]. O la percezione di chi sta nel «primo spazio», in quello dei luoghi e dei territori, di essere fisicamente violentato dalle logiche decisionali di chi – ministro della Repubblica – si presenta in televisione a proclamare decisioni ultimative che mettono in gioco vite ed esistenze, assunte a porte chiuse nel «secondo spazio». O, ancora, la sensazione di chi abita il «terzo spazio» di essere ricattato, e inquinato, dalle «responsabilità orizzontali» di chi, nel «secondo spazio», dice di volerne rappresentare le istanze ma poi, in realtà, finisce per scaricare sulle spalle dei movimenti orientati a valori «globali» responsabilità, e carica di aggressività competitiva, proprie dello spazio politico nazionale.
Come vedi non ho proposte operative. Né soluzioni «tattiche» a dubbi «strategici». Mi rendo conto di quanto sia difficile muoversi nei meandri stretti di una situazione difficilissima, nel tentativo di tenere aperti degli spiragli più o meno ampi [sempre meno, mi pare]. E ho grande rispetto per chi si impegna [magari anche sbagliando] in questo difficile esercizio. Credo però che anche in questo, al di là delle scelte immediate, come prospettiva, la logica della nonviolenza possa aiutare: ad accettare la multiformità del reale, la sua polifonicità, senza pretendere di operarne brusche, e burocratiche, forme di reductio ad unum. Ad ammettere, come ci si va consigliando da tempo, «un mondo che contenga molti mondi». E soprattutto, a non truccare le parole. A non inventare neo-lingue ad uso di ceto. A non «raccontarcela», insomma. Sono sicuro che su questo saremo d’accordo. E che potremo continuare il nostro dialogo
Un caro saluto.
Marco Revelli
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