Dove danno le cooperative. Un dibattito della Fondazione Di Vittorio

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Dove vanno le Coop?

La Fondazione Di Vittorio apre un dibattito sui problemi di governance che coinvolgono il movimento cooperativo italiano. Il primo intervento, pubblicato qui sotto, è di Beniamino Lapadula, coordinatore del dipartimento economico della Cgil Nazionale.

La decisione assunta dalla Fondazione Di Vittorio di aprire sul proprio sito web un dibattito approfondito sul tema della cooperazione è quanto mai opportuna, anche perché si tratta di un mondo complesso fatto di imprese diverse per dimensioni e settori di attività. In questi ultimi mesi, infatti, sono stati sollevati interrogativi che riguardano la funzione della cooperazione e ci sono state prese di posizione, si pensi a quelle di Confindustria, tendenti a confinare l’impresa cooperativa nei recinti della distribuzione, della casa e del sociale. Non è stata questa la posizione assunta dai dirigenti della CGIL che hanno manifestato riserve argomentate sul merito della scalata BNL (la banca è quattro volte più grande di UNIPOL) ma non hanno mai messo in discussione il diritto della cooperazione a competere a pieno titolo nel mercato. L’impresa cooperativa non può, infatti essere considerata un fenomeno marginale. Lo dicono chiaramente i dati: circa un 1 milione e 200 mila addetti e, a differenza degli altri settori caratterizzati dal nanismo d’impresa, una forte tendenza alla crescita dimensionale. C’è poi da considerare che ci sono stati sempre rapporti intensi tra cooperazione e finanza tanto è vero che a livello europeo la quota di mercato bancario detenuta dalle cooperative è pari al 17 per cento, contro l’8 per cento dell’Italia.

Non può, dunque, essere in questione il fatto che la forma cooperativa si presenta a pieno titolo come appropriata per tutti i settori. E’ intuitivo del resto, che il mercato può funzionare meglio se le imprese non sono omologate da un unico modello, ma partendo da questa considerazione, proprio perché ci troviamo di fronte a cooperative capaci di reggere, a parità di condizioni, anche organizzandosi come gruppo, un mercato fortemente concorrenziale, dobbiamo interrogarci su come rendere effettivamente compatibile la convivenza tra i principi classici della mutualità e la dimensione e l’efficienza della grande impresa moderna. Non si può infatti ignorare che anche nel mondo della cooperazione ormai la sola accumulazione interna non è più sufficiente a sostenerne lo sviluppo e assume un ruolo sempre maggiore il mercato dei capitali. Va stabilito, quindi, come la mutualità possa trovare cittadinanza anche all’interno dell’attuale struttura capitalistica evitando così il rischio di confinarla nella storia, all’epoca, per usare le parole di Maffeo Pantaleoni, in cui fu promossa da gente che “non vuole sottostare alle condizioni di salari, o alle usure di strozzini, o a prezzi imposti da coalizioni di dettaglianti”. La realtà dell’esistenza di grandi imprese cooperative in cui i soci rappresentano solo una parte dei soggetti che fruiscono dei servizi della cooperativa o che prestano la propria attività nella stessa, infatti, rimette in discussione lo schema tradizionale della mutualità che riserva i benefici della cooperazione solo ai soci e pone nuovi, stringenti, problemi di governance. In alte parole vanno rimesse a fuoco gli elementi distintivi dell’impresa cooperativa rispetto a quella for profit, va reso esplicito il sistema valoriale di riferimento, devono essere verificabili le peculiari modalità di operare sul mercato, modalità che geneticamente dovrebbero distinguere le cooperative dalle altre tipologie di impresa. Ciò è tanto più necessario dopo che la nuova legislazione ha introdotto novità rilevanti come il criterio della mutualità prevalente, la modifica della indivisibilità delle riserve e la trasformabilità delle cooperative in società for profit. Tutte queste novità impongono un rilancio dei fattori valoriali – identitari del mondo della cooperazione. A tal fine appare necessario fare riferimento ad una concezione di mutualità allargata e porre con forza l’accento sul principio di democrazia.

I requisiti della mutualità allargata e della democraticità della struttura si presentano, quindi, come tratti fondamentali indispensabili anche per motivare al giorno d’oggi, la tutela rafforzata che i padri costituenti hanno voluto accordare alla cooperazione con l’art. 45 della Costituzione.
Il tema dell’allargamento dei benefici della mutualità a tutti gli stakeholder sembra acquisire in questo quadro un’assoluta centralità. Nell’impresa cooperativa, quindi, l’affermazione di un modello multistakeholder appare non solo opportuno, ma necessario. In questo ambito assume rilevanza, insieme all’effettività dei diritti dei soci, un più efficace sistema di controlli interni capace di ridurre la possibilità di pratiche manageriali autoreferenziali. Non convince la tesi, che è stata sostenuta da alcuni autorevoli commentatori, secondo cui i controlli interni non funzionano quando chi detiene il controllo (e questo è il caso delle cooperative, delle banche popolari e delle fondazioni bancarie) non è interessato alla massimizzazione del valore.

Scandali di enorme portata si sono verificati, infatti, proprio nelle realtà più condizionate dalla creazione del valore per l’azionista. Per quanto riguarda il tema della governance non basta però sostenere, come hanno fatto alcuni dirigenti della sinistra in queste settimane, che le coop sono delle speciali public company senza l’assillo della trimestrale di cassa. Il fatto che esistano imprese che, per il peculiare assetto dei diritti proprietari, non abbiano come obiettivo unico la massimizzazione a breve termine del valore di borsa è sicuramente positivo, ma non risolve certamente il tema della corretta gestione. L’assenza dell’assillo del profitto non garantisce infatti, minori costi di agenzia manageriale e non aumenta gli strumenti di controllo. Questo come è noto è un problema rilevantissimo perché manager non controllati, come è noto, possono essere indotti ad espandere l’impresa anche quando ciò non è nell’interesse della cooperativa o assumere rischi non funzionali alle esigenze dell’azienda. Se la contendibilità propria delle imprese for profit non garantisce di per sé una corretta gestione e l’adeguatezza dei comportamenti dei manager, la sua assenza nelle imprese cooperative pone comunque un ulteriore problema da risolvere. Si pone pertanto l’esigenza di forme di apertura all’esterno che garantiscano la circolazione e il ricambio delle diverse esperienze manageriali e la possibilità di una maggiore dialettica decisionale. In tal senso sembra opportuno prevedere, anche nei consigli di amministrazione delle imprese cooperative, la presenza di amministratori indipendenti e dare più spazio al tema della partecipazione dei lavoratori che non sono soci.

(30 Dicembre 2005)

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