Land grabbing all’italiana in Senegal
«Cosa diremo alle generazioni future? Che non abbiamo più alcun diritto sulle nostre terre?». È un grido d’allarme accorato, pieno d’inquietudine, quello lanciato da Mariam Sow dell’organizzazione senegalese Enda Pronat. Mariam in questi giorni è in Europa con altri attivisti e contadini delle comunità del Ndiaël per denunciare le nefaste conseguenze dell’accaparramento delle terre nel suo paese. Una delle tappe fondamentali del loro viaggio è stata l’Italia, non a caso.
I 20mila ettari affittati per 50 anni a un prezzo irrisorio nel Ndiaël fanno capo a una società a capitale misto senegalese e straniero denominata Senhuile SA, di cui il 51% delle quote è in mano all’italiana Tampieri Financial Group Spa. Un’impresa con sede a Ravenna, che produce olio alimentare ed energia rinnovabile da biomassa.«La Senhuile ha iniziato a investire nel 2011, grazie a un primo decreto dell’ex presidente Abdoulaye Wade» ci spiega Elhadji Samba Sow, rappresentante del collettivo dei villaggi dell’area. «Allora era attiva a Fanaye e intendeva coltivare patate dolci, ma ben presto ci sono state forti proteste, sfociate in episodi di violenza che hanno provocato la morte di due persone». Per questa ragione il progetto è stato spostato nel Ndiaël, sempre nel nord-est ma a 30 chilometri dal sito originale. Un cambiamento attuato allorché lo stesso Wade ha tolto ogni vincolo ambientale su oltre 26mila ettari di foresta, concedendone poi buona parte alla compagnia per uso agricolo.Poco importa che in quell’area vi siano 37 villaggi abitati da circa 9mila persone, di fatto «sotto assedio». I margini di movimento per le comunità e il loro bestiame – circa 80mila capi – sono ormai ridottissimi.
«Si sta procedendo con la deforestazione, mentre le fonti idriche sono limitate e sempre più inquinate» aggiunge Thierno Cissé, del Consiglio Nazionale per la Consultazione e la Cooperazione rurale, che poi evidenzia la costante intimidazione da parte della polizia e delle guardie private che proteggono i campi, per oltre un terzo (7mila ettari su 20mila) già coltivati a semi di girasole e arachidi.Soggetti privati e dati eclatantiCome in molti altri paesi del Sud del mondo, in Senegal il fenomeno dell’accaparramento delle terre è in crescita esponenziale.
«Lo Stato sta privatizzando il nostro territorio, fra il 2000 e il 2012 ha ceduto a soggetti privati 844mila ettari» puntualizza Fatou Ngom di ActionAid Senegal. Dati eclatanti, se pensiamo che si parla di una superficie pari a quasi un quarto del territorio di tutto il Senegal. L’accelerazione in questo processo si è avuta nel 2008. La profonda crisi energetica che ha colpito il paese ha spinto Dakar a vendere a destra e a manca le risorse del suo territorio. Una linea di condotta suggerita con forza dai consulenti della Banca mondiale che hanno «aiutato» il governo nella stesura delle nuove linee guida. La politica dell’Unione europea improntata sullo sfruttamento estensivo degli agrocombustibili ha fatto il resto, almeno in relazione all’incremento del land grabbing.Eppure, si accalora Mariam Sow, l’agricoltura a dimensione familiare è il fulcro della società senegalese. Copre il 63% del fabbisogno alimentare nazionale, mentre il 75% della popolazione dipende da essa. «Ma si preferisce penalizzarla, invece di favorirla».La varie criticità narrate dagli attivisti senegalesi sono confermate punto per punto in un rapporto appena pubblicato dallo statunitense Oakland Institute. L’organizzazione con base in California ha raccolto numerose testimonianze sul campo, da cui si evince la mancanza di un vero processo di consultazione e del consenso da parte delle comunità locali, nonché la totale opacità delle operazioni della Senhuile.
Il documento descrive poi nel dettaglio gli impatti sulle comunità, causati soprattutto dai vari canali di irrigazione e dalle recinzioni, che impediscono l’accesso alle terre destinate al pascolo e alle vie verso le fonti idriche. Il rischio che sorgano conflitti tra agricoltori e pastori a causa dell’incipiente scarsità di risorse è sempre più forte.A destare dubbi e preoccupazioni non sono solo gli impatti concreti del progetto, ma anche l’intricato schema societario che sta alle sue spalle.Come accennato, la Senhuile è controllata per il 51% dal gruppo Tampieri e per il restante 49% dalla società senegalese Senethanol. Quest’ultima, secondo le visure ottenute tramite una società specializzata, sarebbe in mano al gruppo di investimento ABE Italia (75%) e a non identificati investitori senegalesi (25%).La pista che porta a New YorkTuttavia, dall’analisi dei bilanci 2011 e 2012 di ABE Italia non compare alcuna partecipazione in Senethanol. ABE Italia, creata nel 2011 dall’industriale italiano Enrico Storti, è stata messa in liquidazione dopo appena un anno e mezzo dalla sua costituzione, con Storti che si è sfilato dal progetto sbattendo la porta.
Interpellato a più riprese per fare luce sul ruolo di ABE Italia nell’operazione, Storti non ha voluto rispondere alle nostre domande.Al momento le presunte azioni di ABE Italia in Senethanol farebbero quindi capo alla sua società madre ABE International LLC con sede a New York. La ABE International, una società di comodo costituita nel 2009 tramite un trustee panamense, con un socio unico neozelandese e registrata allo stesso indirizzo di altre centinaia di shell companies, è oggi gestita da Benjamin Dummai, l’israelo-brasiliano direttore di Senhuile, e Amministratore Delegato di Senethanol, ma i suoi veri proprietari sono sconosciuti, poiché la legge americana consente di mantenere tali informazioni riservate.All’indirizzo di New York segnalato sui documenti ufficiali dell’impresa nessuno ha mai sentito parlare di ABE International, confermando l’ipotesi che si tratti di una sede di comodo a cui affluiscono decine di altre imprese sparse per il mondo.
Benjamin Dummai è un uomo d’affari con un passato controverso. In un paio di occasioni le autorità brasiliane lo hanno giudicato colpevole di evasione fiscale e truffa, sebbene poi nel primo caso il reato sia finito in prescrizione.«Che bisogno c’era di mettere in piedi questa struttura così complessa e controversa?» è una delle domande che si pongono tutti i membri della delegazione senegalese. Per il momento la loro certezza assoluta è che la Tampieri deve subito porre fine al progetto. Una richiesta avanzata già da oltre 20mila persone in tutta Europa sottoscrivendo l’appello urgente di ActionAid, Re:Common, insieme a Peuple Solidaires, Grain, Oakland Institute, il Conseil Nacional de Concertation et de Coopération des Ruraux, Enda Pronat e il Collettivo dei 37 villaggi del Ndiaël, che in Italia si trova sulla pagina web www?.actio?naid?.it/?s?e?n?e?gal.
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