È un passo avanti che fa vacillare le due maggioranze
Un primo accordo sulla riforma elettorale sta spuntando: ma alle condizioni del Nuovo centrodestra, non di Silvio Berlusconi. E l’irritazione del leader di Forza Italia nei confronti di Matteo Renzi lascia capire che il presidente del Consiglio ha dovuto avallare la soluzione offerta dal suo alleato. Si cambia il sistema di voto solo alla Camera, come aveva chiesto fin da dicembre Gaetano Quagliariello, allora ministro per le Riforme e oggi segretario dell’Ndc. Di conseguenza, l’asse istituzionale tra Renzi e il Cavaliere regge, ma viene ridimensionato. D’altronde, una riforma fatta con FI contro un partito della coalizione poteva diventare destabilizzante. Il «grave disappunto» berlusconiano fotografa il ritorno alla realtà del capo del governo, attento a incassare un risultato.
Almeno nelle intenzioni, il compromesso, che dovrebbe essere ratificato alla Camera venerdì, scongiura per un anno le elezioni anticipate; e lega la fine della legislatura all’eliminazione di fatto del Senato. Renzi parla di «passo avanti». E liquida l’irritazione di FI. «Voglio far notare a Berlusconi e a tutti che stiamo realizzando ciò che ci eravamo impegnati a fare», rivendica il premier. «Le polemiche di queste ore non le capisco. Il fatto che il Senato abbia o non abbia una legge elettorale è ininfluente perché non si voterà più per eleggere i senatori».
È un modo per rintuzzare l’accusa di essersi piegato al «no» di alcuni settori del Pd e dal Ncd; e per non chiudere i rapporti con l’opposizione. Avere almeno alla Camera la riforma viene considerato una garanzia, qualora ci fosse un incidente di percorso e il governo precipitasse verso il voto anticipato. Gli avversari di Renzi nel Pd e la filiera di quanti invocano un ritorno alle preferenze parlano di un altro «pasticcio» in incubazione: una riforma che comunque non garantirebbe la stabilità né scongiurerebbe la fine anticipata della legislatura. Il Movimento 5 Stelle prevede che due leggi elettorali diverse, una per la Camera, con premio di maggioranza abnorme, ed una per il Senato, un proporzionale puro, comportano due risultati certi: l’ingovernabilità totale e lo sfascio del Paese».
Ma il premier la considera un’arma di dissuasione nei confronti degli oppositori: potrebbe additare un Parlamento conservatore e chiedere voti in nome del cambiamento, fiducioso di ottenere un risultato certo almeno a Montecitorio. Il fatto che ieri, da Tunisi dove è in visita ufficiale, abbia intimato al Parlamento di non perdere tempo e di approvare la riforma entro venerdì, è un segnale in questo senso. L’epilogo della trattativa, però, conferma quanto sia difficile mantenere l’alleanza con Angelino Alfano senza sacrificare l’intesa di sistema con Berlusconi. Le «due maggioranze» sono difficili da gestire, stando a Palazzo Chigi. L’esigenza di stabilità impone in primo luogo l’accordo con la propria coalizione. È vero che FI sottolinea la «generosità» e «il senso di responsabilità» del Cavaliere. Ma sono eufemismi che non cancellano una battuta d’arresto.
Quando in mattinata sono emersi i contorni dell’accordo, le prime reazioni dei berlusconiani sembravano preludere a una disdetta del patto con Renzi. La nota berlusconiana di ieri pomeriggio, per quanto dura, è quella di chi registra una sconfitta; ne prende atto; e non ne trae le conseguenze solo perché vuole apparire una sorta di «padre nobile» al di sopra delle proprie convenienze. C’è la conferma dell’accordo «pubblicamente realizzato» e la smentita di un «patto segreto» con Renzi: tanto più nel giorno in cui la magistratura nega a Berlusconi l’autorizzazione a partecipare al vertice del Ppe a Dublino dopo la sua condanna definitiva. In realtà, l’Italicum in versione corretta compatta la coalizione intorno a Palazzo Chigi: in attesa delle prossime riforme e soprattutto del responso che le elezioni europee di maggio daranno sulla leadership renziana.
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