Bentornata a Sarajevo lotta di classe
Da una settimana ormai dilaga la protesta dei lavoratori in Bosnia Erzegovina, significativamente nelle stesse località, a partire da Sarajevo, che poco più di 20 anni fa hanno visto lo scatenarsi della guerra interetnica che dissolse nel sangue la Federazione jugoslava. Ce n’è abbastanza ormai per trarne alcune considerazioni che non riguardano solo il sud-est europeo che, chissà perché, ci ostiniamo a considerare lontano. Perché quel che accade rimette probabilmente in discussione un paradigma storico e politico.
Tutto iniziò con la crisi economica
Con la protesta sociale diffusa in tutti i Balcani — solo a gennaio è ripresa l’iniziativa dei lavoratori serbi contro una draconiana legge sul lavoro voluta dal governo di Belgrado, per non parlare di altre proteste in Croazia, Montenegro, Macedonia e nello stesso ancora conteso Kosovo — assistiamo ad una sorta di «ritorno al futuro». La crisi dell’ex Jugoslavia fu infatti prima di tutto crisi economica e sociale e poi arrivò il cancro dei nazionalismi separatisti, anche grazie alla debolezza della Costituzione di Tito e Kardelj del 1974 che autorizzava il diritto di veto delle rappresentanze istituzionali delle varie Repubbliche anche equamente ripartite. Quando la crisi economica irruppe, a metà degli anni 80, cominciò a sgretolarsi il sistema della solidarietà tra le varie Repubbliche (e regioni autonome) che componevano il delicato mosaico jugoslavo. Con le regioni più «ricche» pronte a difendere i propri cittadini, ma invise a soccorrere le aree più arretrate, regioni che spesso corrispondevano quasi strutturalmente ad altrettanti nodi istituzionali e politici legati ai diritti delle minoranze che lì vivevano. Come fu il caso del Kosovo. Come si può capire, fu quasi un anticipo del conflitto inter-europeo che contrappone oggi i vari paesi dell’Unione in equilibrio paritetico di poteri solo nella rappresentanza di turno nella presidenza Ue. Proprio come fu per la Jugoslavia.
A quel conflitto sociale che puntava a salvaguardare la condizione dei lavoratori e il welfare garantito, minimo, infimo ma importante, invece che un’azione autonoma e indipendente dei sindacati e un ruolo decisivo dell’istituzione dell’autogestione — entrambe realtà sostanzialmente marginali, senza poteri effettivi e subalterne rispetto all’emergere dei diritti nazionali — maturò una gestione nazionalista della protesta diffusa. Fu così per il complesso agroindustriale dell’Agrokomerc in Bosnia, così per le fabbriche in Croazia, Slovena e Serbia, così per le miniere in Kosovo e per i cantieri montegrini. Alla fine più che la lotta di classe contò ancora una volta lo scontro tra interessi identitari più o meno mascherati. Esiziale fu la gestione dell’Unione europea (allora si chiamava ancora Cee) quando, piuttosto che salvaguardare l’unità della Federazione jugoslava, legittimò la guerra, intanto esplosa, con il riconoscimento di Slovenia e Croazia come nazioni sovrane dopo la loro autoproclamazione in stati autonomi sulla base etnica della «slovenicità» e della «croaticità». Preparando il baratro del conflitto in Bosnia dove ogni nazionalità, lingua e religione erano rappresentate.
Questo ruolo di Bruxelles — ma anche della Nato, siamo nel 1992 a tre anni dall’89 — mostra quale fu da quel momento in poi il ruolo dell’Unione europea. Con il miraggio dell’ingresso nell’Ue offerto a questi nuovi stati nazionali, fu di sostanziale compartecipazione alla guerra, con l’accaparramento di influenza contrapposte: la Francia diventava filo-serba, la Gran Bretagna filo-bosniaca, la Germania filo-croata e via dicendo. Il tutto con l’avvento nell’area della «diplomazia» statunitense. Alla fine decisiva, sia per la risoluzione della guerra in Bosnia con la pace di carta di Dayton a fine 1995, e in seguito con l’intervento armato aereo della Nato per la «risoluzione» dell’irrisolta crisi kosovara nel 1999.
La coazione a ripetere occidentale
Che c’entra tutto questo con la protesta sociale in corso? Varrà la pena riflettere sul fatto che l’unica risposta che è venuta in questi giorni dall’Occidente sulle agitazioni dei lavoratori e le proteste sociali in tutti i Balcani, a cominciare dalla Bosnia, sia stata ancora una volta la minaccia dell’uso della forza. L’Unione europea, pare di capire, non può permettersi di veder fallire la finta sicurezza definita nel sud-est — colonie d’oltremare? — con vere e proprie occupazioni militari, proprio ora che è alle prese con la crisi di senso e di solidarietà del suo status fondativo. E allora che fa? L’Alto rappresentante della Comunità internazionale in Bosnia Erzegovina Valentin Inzko, preso da un attacco di coazione a ripetere, minaccia: «Se la situazione dovesse peggiorare dovremmo ricorrere all’invio di truppe dell’Unione europea».
Lo «spazio jugoslavo»
Quel che è sotto gli occhi di tutti è il fatto che, proprio grazie alla protesta diffusa dei lavoratori, sta tornando lo «spazio jugoslavo». Perché se tutto è nato dalla crisi economica degli anni Ottanta, non fu certo la guerra interetnica a risolverla. Anzi, la guerra l’ha aggravata, i poveri sono diventati più poveri e ad arricchirsi sono state tutte le mafie che la guerra hanno voluto e alimentato. La massa che la guerra ha combattuto è ferita, mutilata e senza nemmeno sostegni, i salari sono di fame, la disoccupazione vale per metà della popolazione. Una situazione se possibile peggiore della Grecia. E nel centenario della Grande guerra che ebbe origine, ufficialmente, proprio a Sarajevo, mentre la città resta, come allora, sospesa tra le strategia delle grandi potenze dell’area. Ieri è «occasionalmente» arrivato in visita anche il ministro degli esteri turco Davutoglu.
L’Unione europea per legittimare l’ingresso degli stati balcanici nel suo «allargamento» insiste ad amministrarli con il Fondo monetario internazionale che ha avviato da tempo mega-privatizzazioni di tutto, servizi e complessi industriali. Che ormai falliscono, dopo avere arricchito élite e mafie locali. E si accende la rivolta sociale. Già la disinformacjia dei regimetti e i corvi ultranazionalisti arrivano per riproporre l’ennesima strumentalizzazione della protesta, pronti ad impadronirsene, a Mostar, a Banja Luka, a Sarajevo, dove emerge anche una rottura generazionale. Ci raccontano da Sarajevo che molti cittadini restano sgomenti e dolorosamente ammettono: «Il palazzo della presidenza noi l’abbiamo difeso con le armi dai cetnik, ora i nostri figli lo bruciano…che sta accadendo?». In piazza a Tuzla gli operai delle cinque fabbriche fallite dopo la privatizzazione dichiarano: «Restituite le fabbriche ai lavoratori» e il primo giorno hanno scritto sui muri della città «Morte al nazionalismo». Nema problema, è davvero una buona notizia. Bentornata lotta di classe.
Related Articles
Myanmar. Golpe dei militari, arrestata Aung San Suu Kyi
Interrotto il processo democratico. Dopo l’esito elettorale sfavorevole. La scusa per il colpo di mano le presunte «irregolarità»
Export tedesco per 25 miliardi di armi: una Grosse koalition d’affari
Germania. I carri armati turchi di «Ramo d’ulivo» sono quelli della Bundeswehr girati al «Sultano». La Linke: in quattro anni di governo Merkel-Gabriel (Cdu-Spd) sostegno ai Paesi in guerra
La Grecia verso un governo di tecnici
Proposta ai partiti del presidente Papoulias. Se fallisce si torna alle urne