Sarajevo 2014, in rivolta la generazione degli esclusi

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L’ondata di violenza attraversa la Bosnia, da Tuzla, fino a Mostar, passando per Sarajevo, dove i manifestanti hanno dato alle fiamme il palazzo della presidenza. Qui è stato gravemente danneggiato l’archivio storico, in cui si trovavano importanti documenti originali risalenti all’impero austro ungarico. È un altro «crimine» (come l’ha definito il direttore dell’archivio) che Sarajevo subisce nella sua storia tormentata. È anche un’altra dolente rimembranza del recente conflitto, quando venne devastata la Biblioteca nazionale e, con essa, la memoria del Paese.
Notizie drammatiche, che appesantiscono il clima, in coincidenza del trentennale delle olimpiadi — ultimo scampolo di pace e serenità della Bosnia — e della ricorrenza dell’attentato all’Arciduca d’Austria, la scintilla della prima guerra mondiale. Ma i messaggi, per quanto preoccupanti, non sono del tutto negativi.
In primo luogo, le proteste non riproducono la conflittualità etnica e religiosa cui ci ha abituato la storia recente, ma esprimono esasperazione contro una politica inerte e corrotta che, dalla pace di Dayton (1996), ha prodotto clientelismo, arricchimenti personali, povertà e disoccupazione collettive. Nelle strade della Bosnia è scesa una generazione che non ha vissuto gli anni della guerra e che è stanca di un’infinito dopoguerra senza futuro. Una generazione che guarda all’Europa, che contesta in blocco la classe dirigente e che ha deciso di fare sentire la propria voce. Non a caso, la protesta è esplosa a Tuzla, l’area più industrializzata, l’area che persino durante il conflitto era riuscita a mantenere aperti canali di dialogo con le altre comunità.
La protesta è anche una denuncia del fragile e insostenibile equilibrio istituzionale — una presidenza a tre teste, la divisione in cantoni della Federazione croato-bosniaca, la Repubblica dei Serbi di Bosnia, la moltiplicazione dei livelli amministrativi — che ha finito per produrre una spartizione di posti e risorse su base etnica e politica, senza ricadute positive sullo sviluppo economico e sociale. Anche i flussi di sostegno della Comunità internazionale vengono succhiati secondo gli stessi meccanismi, finendo per consolidare, anziché attenuare, la spartizione. In secondo luogo, le proteste coinvolgono soprattutto la componente musulmana. E qualche commentatore azzarda uno scenario di «primavera bosniaca».
I bosniaci musulmani, pur egemoni, soprattutto nell’area di Sarajevo, restano il gruppo etnico-religioso più debole, il classico vaso di coccio come ai tempi della guerra. L’orgoglio di vedere la loro nazionale ai mondiali di calcio non basta a consolare il senso di isolamento e di frammentazione del Paese. I cattolici croati, per quanto ridotti dagli esodi e spinti ai margini, vedono il loro futuro più ricco di possibilità grazie all’ingresso della Croazia in Europa. I serbi di Bosnia, che hanno sempre rivolto lo sguardo a Belgrado, attendono che a Bruxelles scocchi l’ora anche per la Serbia. I bosniaci non vorrebbero perpetuare il senso di esclusione.


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