L’ultimo sciopero al porto di Genova, i camalli feriti dal mercato globale

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Ma almeno la paga, datecela giusta, dicevano. Allora qualcosa hanno ottenuto. Un po’ più di paga e i polmoni marci lo stesso. Ma la famiglia campava.
Erano i lavoratori della Compagnia Pietro Chiesa. Camalli-carbonai lavoratori del porto di Genova. Aristocrazia operaia. Soltanto loro sapevano fare certi lavori di precisione, perfezione, organizzazione. Andavano nel Wisconsin, a Liverpool, in Australia a insegnare e a imparare. Poi, trent’anni fa, un altro scioperetto contro il ministro Giovanni Prandini che voleva privatizzare tutto: anche l’acqua del mare. Ma lì è stato facile per quei furboni della Compagnia dei carbonai dimostrare che l’acqua del mare — e dei porti — la conoscevano molto meglio del ministro nato a Calvisano, quindi in provincia di Brescia. E averla vinta. Ora, di scioperi ne hanno fatto un altro. Gli vogliono — semplicemente — togliere una fetta di lavoro per darlo a chi costa meno. Questa volta tutto è più difficile. È la contingenza, bellezza.
Si stanno rendendo conto, i carbonai, che lavorare bene non serve più. Tanto c’è uno, sulla punta del molo — e adesso di moli ce ne sono tanti — che per meno euro fa il tuo stesso lavoro. E chi se ne importa se tu sei più bravo. È la globalizzazione, amico. E chi se ne importa se a voi — lavoratori specializzati della Compagnia Pietro Chiesa — un tipo intellettuale come Luigi Squarzina vi ha costruito addosso uno spettacolo teatral-cinematografico per dire: avete anche un significato storico, non siete solo degli insetti parassiti, siete un pezzo della spina dorsale di una città che campa di ricordi gloriosi. Adesso arriva un nuovo padrone del Terminal. Nel 1900 i Carbonai del porto di Genova erano 3.500. Oggi sono una cinquantina. Lo sciopero — è logico — ora è finito. Ma, come dice Tirreno Bianchi, il capo degli illusi: «Non finisce qui…».


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