Utili nella holding estera, costi in Italia così Fiat-Chrysler pagherà meno tasse

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MILANO — «Nulla di irregolare». È la voce del ministro dell’Economia, Fabrizio Saccomanni, a rompere il silenzio sul trasferimento della Fiat all’estero, seguita da quella dello sceriffo delle tasse, Attilio Befera. «Verificheremo il pieno rispetto delle leggi fiscali italiane», ha ribadito più prudentemente il direttore dell’Agenzia delle Entrate.
Il modello di partenza che Sergio Marchionne ha in mente per fondere la Fiat Auto con la Chrysler è lo stesso utilizzato per le controllate che operano nella produzione di trattori e camion, l’italiana Fiat Industrial spa e la olandese Cnh Nv: la sede fiscale sarà nel Regno Unito, quella legale in Olanda. Una fusione transfrontaliera, in cui una società italiana diventa olandese e stabilisce la sede fiscale in Inghilterra. Per le tasse, lo scoglio da superare è dimostrare che «la sede centrale gestionale e organizzativa sia situata (in tutto o in parte) nel Regno Unito», scrive la Fiat nel prospetto informativo dell’operazione Cnh. Le autorità fiscali olandesi e inglesi non hanno avuto nulla da dire e hanno subito accolto a braccia aperte un colosso mondiale del calibro di Fiat, mentre l’Agenzia delle Entrate non si è ancora espressa. Ora la questione è raddoppiata perché riguarderà anche la Fiat Auto.
Qualche grattacapo potrebbe arrivare dalla «struttura gestionale e organizzativa» del presidente John Elkann che rimarrà per il momento a Torino: «Il mio ufficio è questo, quello in cui mio nonno ha passato gli ultimi cinque anni della sua vita, e non si sposterà, resta qui, al Lingotto», ha spiegato in una intervista al quotidiano La Stampa.
Sergio Marchionne, invece, ha già in mente cosa trasferire fin da subito all’estero: i dividendi, gli interessi e le royalties (marchi e brevetti), ovvero tutti quei beni delle società italiane che generano utili, lasciando in Italia soprattutto i costi. Spostare i palazzi del resto è più difficile che spostare asset immateriali, ma col tempo anche le vere «strutture gestionali e organizzative » (dagli uffici direttivi alla ricerca del gruppo) dovranno cambiare sede per dare concretezza al via libera londinese e per non incorrere in qualche sanzione da parte dell’Agenzia delle Entrate.
Il giochetto è semplice ed è all’ordine del giorno di qualsiasi multinazionale, da quelle della moda a Internet. I benefici fiscali sono generati soprattutto dai rapporti intercompany tra la holding estera e le società operative con sede in Italia. Se la Fiat incassasse i dividendi a Torino, pagherebbe l’1,375% di tasse, mentre in Inghilterra la tassazione è nulla. Non si tratta di grandi cifre, anche se su numeri rilevanti il valore è tutt’altro che risibile. I benefici aumentano per gli interessi e le royalties: nel primo caso la holding raccoglie i capitali a Londra, finanzia l’operativa e incassa gli interessi sul finanziamento. Nel secondo caso, i marchi e i brevetti custoditi tra gli asset della holding estera vengono venduti all’operativa italiana che paga un corrispettivo. È chiaro che in entrambi i casi i profitti finiscono in capo alla holding, mentre i costi in capo alla operativa italiana. L’effetto è duplice: da una parte l’utile non viene tassato in Italia, ma in un Paese fiscalmente più morbido, dall’altra i costi (il corrispettivo versato per i marchi e gli interessi) abbattono i ricavi italiani contribuendo ad abbassare le tasse sugli utili residui che la società operativa produce in Italia.
Non sarà difficile immaginare in un prossimo futuro una Fiat londinese che controllerà una Fiat spa o una semplice divisione italiana di Fiat svuotata dai marchi, dai brevetti e caricata di costi e interessi in modo tale da avere un monte utili su cui pagare una Ires (27,5%, in Uk è al 21%) più bassa possibile. Lo Stato si consolerà con l’Irap (3,9%) che comunque quel che resta di Fiat dovrà sempre versare. Per farla franca, Marchionne dovrà però dimostrare al Fisco che i brevetti e i marchi (come Ferrari e Maserati)
non sono nati e pensati in Italia. È una strada in salita, ma già intrapresa con la decisione di sostituire il vecchio marchio Fabbrica Italiana Automobili Torino con il più internazionale Fca (Fiat Chrysler Automobiles). Per esportare gli asset all’estero, Fiat non dovrà nemmeno sborsare la Exit tax. Prima del 2011, per trasferire la sede fuori dall’Italia, era necessario pagare subito le tasse sulle plusvalenze che il passaggio degli asset da una società a un’altra avrebbe generato. Ora la tassazione è differita nel tempo e viene rimandata solo al momento della cessione vera e propria dell’asset. La storia vuole che dal 2011 gli Agnelli hanno iniziato a pianificare le due operazioni Cnh e Fiat Auto.


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