Il sogno americano dei ceti medi diventa un incubo per Obama

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Il leader democratico è sicuramente coraggioso quando chiede che la sua presidenza venga giudicata sui risultati che riuscirà a ottenere in questo campo nell’ultima parte del suo mandato.
Ma il suo discorso sullo Stato dell’Unione di martedì sera ha messo a nudo che il presidente ha ben pochi strumenti a disposizione per correggere squilibri che hanno cause molteplici e profonde e che con lui alla Casa Bianca, anziché ridursi, si sono accentuati. Basta passare in rassegna i motori della ripresa americana: salvataggio del sistema finanziario, profitti industriali record che hanno rilanciato la Borsa, recupero del mercato immobiliare sono tutti fattori che hanno favorito chi era già ricco o benestante.
Con un Congresso meno ostile Obama potrebbe, forse, fare di più per i ceti in difficoltà creando nuovo lavoro con programmi di opere pubbliche e con interventi fiscali di redistribuzione del reddito. Ma gli squilibri e la difficile situazione sociale nella quale è scivolata l’America (la quota dei redditi da lavoro sul Pil è scesa, dal 2000 ad oggi, dal 60 al 54 per cento, mentre i profitti, che per decenni hanno oscillato tra il 4 e l’8, nell’ultimo trimestre del 2013 sono schizzati addirittura al 16 per cento) dipendono solo per una parte relativamente piccola dalla «grande recessione» iniziata nel 2007 e dalle politiche fiscali pro-ricchi dell’era Bush.
Come negli altri Paesi industrializzati, anche negli Usa il mondo del lavoro è stato messo sotto pressione dall’effetto combinato di due fenomeni enormi e sui quali è difficile intervenire con gli strumenti tradizionali della politica: la globalizzazione di un mercato del lavoro nel quale sono spuntati due miliardi e mezzo di nuovi protagonisti, soprattutto asiatici, e l’impatto delle tecnologie digitali che consentono di automatizzare sempre più mestieri e, ormai, anche professioni a medio contenuto intellettuale.
Una risposta adeguata a queste sfide per ora non ce l’ha nessuno. Tutte le economie occidentali soffrono: lo sa meglio di chiunque altro un’Italia che in pochi anni ha lasciato per strada quasi un decimo del suo reddito nazionale. Le cose dovrebbero andare molto meglio negli Usa, arrivati al quarto anno di ripresa, col «boom» di gas e petrolio e molte industrie che riportano in patria le produzioni a suo tempo trasferite in Asia o in Messico.
Ma gli americani, che pure dall’inizio della crisi a oggi sono riusciti a ridurre il debito privato di oltre 1.500 miliardi di dollari e che hanno riportato molti consumi, come l’acquisto di auto, ai livelli pre-crisi, non gioiscono affatto. Anzi: la difficoltà di trovare lavoro, soprattutto per i giovani, i redditi in contrazione e l’«ascensore sociale» bloccato stanno diffondendo la sensazione che il «sogno americano», il collante sociale che tiene insieme il «Paese delle opportunità», stia andando in pezzi.
Obama ne è ben consapevole. Capisce che tutto ciò può avere, prima o poi, conseguenze serie sulla pace sociale e cerca di correre ai ripari. Ma gli strumenti a disposizione della politica in questo campo sono pochi. Dal lato del lavoro si possono incentivare ancora di più i programmi di ricerca e gli investimenti in infrastrutture. Quanto ai ceti medi, Third Way, il centro di ricerca dei democratici centristi che assiste il vicepresidente Joe Biden nella definizione delle politiche sociali, propone alla Casa Bianca una strategia di recupero dell’«American dream» basata sulla riduzione dei costi di accesso dei cittadini a quattro servizi essenziali per il loro benessere e il loro futuro: istruzione di alto livello, cure mediche, pensione, casa.
Sulla sanità, dopo una mezza riforma e quattro anni di battaglie, i progressi (se ci sono) sono stati minimi. E nelle altre aree Obama, assediato dai veti dei repubblicani che sono maggioranza alla Camera, ha dovuto rinunciare a interventi legislativi ambiziosi. L’anno scorso, accusando i suoi avversari di irresponsabilità, il presidente sembrò puntare tutto su un capovolgimento degli equilibri a favore dei democratici nelle elezioni di «mid term» del prossimo novembre. Ma i sondaggi più recenti dicono che la manovra ha poche possibilità di riuscita alla Camera, mentre la sinistra rischia addirittura di perdere la maggioranza che oggi ha al Senato.
Da qui il ritorno di Obama a toni meno bellicosi e la determinazione (o rassegnazione) a governare con gli ordini esecutivi presidenziali la cui portata è assai limitata. A partire dall’aumento del salario minimo che potrebbe dare un certo respiro all’economia (più reddito e più consumi) se fosse tradotto in legge federale. Ma che nella versione messa in campo dal presidente — aumento per chi lavora a nuovi contratti di fornitura alla pubblica amministrazione — rischia di avere un impatto più simbolico che sostanziale, toccando poche migliaia di lavoratori.


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