Il sollievo di Napolitano per l’avvio della partita

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Goffi tentativi di reclutarlo fra gli sponsor o, all’opposto, fra i censori dell’accordo siglato ieri tra Matteo Renzi e Silvio Berlusconi sull’impianto della riforma elettorale. Ma tentativi anche indebiti, visto che il capo dello Stato non può entrare — e non entra — nel merito di un sistema di voto che sta alle Camere mettere in cantiere, perfezionare e approvare.
Certo, il fatto che si sia imboccata la strada più concreta per sostituire il Porcellum è visto con sollievo, al Quirinale, dove nessuno dimentica i due anni di esortazioni e appelli caduti nel vuoto.
Ma questo provvisorio conforto non si traduce in appoggi acritici o in disapprovazioni preventive, che in ogni caso non competerebbero al presidente della Repubblica. A lui invece spetta vagliare la coerenza delle nuove regole con le parti «prescrittive» della sentenza con cui la Corte costituzionale ha bocciato il Porcellum.
Tra annunciate pregiudiziali di incostituzionalità, spazi di mediazione che magari di colpo potrebbero chiudersi, prevedibili battaglie e imboscate in Aula, rischio di pasticci finali, la fase che si apre adesso è molto complicata e il risultato non scontato. Perciò sul Colle ci si limita a un monitoraggio riservato, passo dopo passo. Sapendo che a Napolitano, il quale dispone del potere di rinvio (un veto dal carattere comunque solo sospensivo), in questa circostanza compete soprattutto un controllo «di ragionevolezza».
Per spiegarci, bisogna tornare al significato del fatidico pronunciamento di mercoledì 4 dicembre 2013. Una sentenza in cui si è registrato un cambiamento del ruolo della Corte costituzionale che fa discutere: da giudice delle leggi a soggetto promotore delle riforme. Di solito — si sa — la Consulta è un legislatore «negativo», nel senso che esercita un sindacato di legittimità costituzionale su una data legge, facendola «scadere» se contrasta con quanto sta scritto sulla Carta. Nel caso del Porcellum questo ruolo è stato solo residuale, legato al fatto che non si può ammettere alcun vuoto nel campo di una legge elettorale, mentre i giudici hanno voluto con la loro sentenza riaffermare un paio di valori, non rispettati dal vecchio sistema: il principio della democrazia rappresentativa (articolo 1) e l’esigenza della governabilità. Così, dopo una complessa e travagliata analisi, hanno rimesso al Parlamento ogni scelta. Senza legittimare, ma anche senza escludere, alcun sistema. Senza imporre nulla a priori.
Al capo dello Stato, quando giungerà per lui il momento di decidere sulla promulgazione, toccherà quindi considerare l’insieme degli accorgimenti che il legislatore avrà posto in essere in relazione al bilanciamento di quei due interessi principali. Un esempio: la discrezionalità e la prudenza del Parlamento nel tenere conto di ciò che ha fissato la Consulta porta a dire che un premio di maggioranza ragionevole potrebbe essere del 15 per cento, non di più. Un nodo critico che, per essere sciolto positivamente, dovrà poi armonizzarsi con una pluralità di altri elementi: le soglie di sbarramento, il listino bloccato, il riparto dei seggi su base nazionale, il doppio turno… Caratteristiche di un futuribile sistema che, come ha avvertito la Corte costituzionale nel punto in cui spiega le prerogative della Giunta per le elezioni, non prevede zone franche. La Consulta, infatti, ha avocato a sé il potere di decidere, in qualche misura, anche su ricorso diretto degli elettori. Per questo il lavoro del presidente sarà delicatissimo, oltre che difficile.
Marzio Breda


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