Una società sprofondata nella sabbia
Mai è stata così grande la distanza tra il popolo e gli dei. È il malinconico grido di allarme che Giuseppe De Rita e Antonio Galdo lanciano nel loro ultimo lavoro pubblicato da Laterza (Il popolo e gli dei. Così la Grande Crisi ha separato gli italiani, pp. 103, euro 14). Gli dei altro non sono che le istituzioni politiche: la democrazia rappresentativa era riuscita ad avvicinarle al popolo. Anche se scrivono molto di Europa, il volume non affronta la crisi del progetto europeo, bensì quella più prossima della società italiana, segnata dalla recessione economica, dalla perdita di credibilità del sistema politico e da una ridotta, se non cancellata, capacità di innovazione del sistema produttivo. Un quadro fosco, che ha tre «scene» primarie: l’eclissi della sovranità nazionale, ormai variabile dipendente alle decisioni prese da organismi internazionali, sia che si tratti del Fondo monetario internazionale che della Banca centrale europea che della Unione europea; la fine della rappresentanza, che per i due autori è esemplificata dalla trasformazione dei partiti politici in realtà autoreferenziali; il potere indiscusso del libero mercato.
Nuove direzioni
Tre scene «primarie» ormai acquisite dalla saggistica critica verso il modello «neoliberista». I due autori, tuttavia, le propongono al fine di indicare una via d’uscita dalla crisi incentrata sulla capacità «adattativa» degli italiani, che come la sabbia riescono a sfuggire a qualsiasi pretesa regolamentativa e dirigista dello stato centrale. O, all’opposto, che sfuggono, in quanto artigiani virtuosi, piccoli imprenditori legati al territorio, lavoratori autonomi o della conoscenza, alle strategie del big business. Una via d’uscita che assomiglia più a un vicolo cieco che a una soluzione, perché il modello italiano delle piccole imprese, cioè il capitalismo molecolare più volte enfatizzato da De Rita, è andato in pezzi proprio per questa capacità «adattativa», sempre legata a una contingenza determinata proprio da quei poteri forti dai quali il capitalismo molecolare voleva differenziarsi. Una soluzione, dunque, che segue sentieri già battuti. E già franati.
Le tre scene proposte dagli autori vanno comunque illustrate. Sulla prima De Rita e Galdo non usano mezzi termini. Il processo di costruzione dell’Unione europea è complementare alla costruzione dell’egemonia della vision neoliberale. Sono stati, quelli alle nostre spalle, gli anni che hanno visto una cessione, da parte degli Stati, di parti significative della propria sovranità nazionale — la politica economica e sociale, in primo luogo — a organismi sovranazionali.
Le decisioni vengono quindi prese non dai parlamenti nazionali, ma da istituzioni tanto lontane quanto espressioni di logiche astratte difficilmente contestabili e rispondenti a priorità che quasi mai coincidono con le urgenze del paese costretto a subirle.
La politica viene dunque vista come un «sistema» alieno rispetto i bisogni di un paese come l’Italia, mentre il sistema politico assume le caratteristiche di una oligarchia che si appropria della ricchezza prodotta. L’Unione europea è considerata un Beemoth manovrato dalle banche e dal capitale finanziario che fa terra bruciata della costellazione di piccole e medie imprese, caratteristica fondante, per i due autori, la realtà economica e sociale italiana.
Dal 2006 in poi, ma la datazione potrebbe essere anteposta di oltre dieci anni, cioè da quando irruppe sulla scena politica Silvio Berlusconi, l’Italia ha conosciuto anche la fase conclusiva della scomparsa dei grandi partiti politici di massa. Da allora, una «società di sabbia» come quella italiana è stata contraddistinta dall’aumento dell’astensionismo e dal nomadismo elettorale: la scelta del partito nell’urna non segue logiche di appartenenza sociale, ideologica, culturale, bensì è stata fluttuante in base a interessi individuali di breve periodo. L’unica costante è un diffuso populismo – spazio politico occupato, prima dalla Lega, poi da Berlusconi e in tempi più recenti da Beppe Grillo – una disaffezione alla politica, considerata non come gestione della cosa pubblica, ma come una forma organizzata tesa a riprodurre una «casta» attraverso l’accesso ai finanziamenti pubblici e alla corruzione.
La terza scena proposta da De Rita e Galdo è il potere del mercato e della finanza. La citazione dell’aumento delle disuguaglianze sociali e di un agire economico senza regole si inserisce nel flusso che ormai alimenta la saggistica mainstream. Non è neppure una novità il fatto che per fronteggiare la crisi economica gli italiani abbiano eroso i risparmi accumulati negli anni, né che la famiglia, ritenuta il centro della vita sociale, abbia conosciuto una profonda trasformazione. Cresce il numero dei single; aumentano le convivenze, i divorzi, e si espande il fenomeno dei figli che rimangono in famiglia ben oltre l’inizio dell’età adulta: è sempre la famiglia a funzionare come un «welfare» nei confronti dei giovani che non riescono ad entrare nel mercato del lavoro o che svolgono un lavoro precario.
In cerca della vitalità perduta
Dati ormai acquisiti, ma che non riescono ad agglutinarsi per sviluppare un punto di vista critico verso il presente. È questo un fattore problematico che diventa evidente quando gli autori descrivono la riduzione della politica a algida amministrazione dell’esistente, ma che viene repentinamente archiviato quando elevano a soluzione la capacità di adattamento degli italiani, testimoniata dall’aumento delle piccole imprese registrate o delle partite Iva. In entrambi i casi, più che segnali di vitalità del capitalismo molecolare sono gli indici di una diffusione di lavoro precario, sottopagato e a basso contenuto di innovazione. È abbastanza evidente che per svolgere un lavoro, la partita Iva è una delle poche soluzioni contrattuali possibili tra il singolo e l’impresa. E che la remunerazione è costantemente al ribasso ormai da anni.
La sabbia che sfugge dalle mani dei due autori è proprio questa costante tendenza al ribasso per il lavoro vivo, indipendentemente dalla forma giuridica che viene usata. In questo caso il territorio, con le sue reti sociali vischiose, più che risorsa per i singoli è il contesto sociale e politico nel quale viene gestito la corsa al ribasso per salari e redditi, all’interno della cornice chiamata, a ragione, precarietà. Del lavoro e dell’esistenza. Quindi non una possibile leva di rilancio economico, ma una gabbia nella quale non si contemplano né formazione continua, né innovazione, né superamento delle disuguaglianze sociali. Lasciando così intatta quella distanza tra il popolo e gli dei, visto che anche in questo caso la politica è sempre amministrazione dell’esistente e dispositivo vincolato agli interessi delle imprese. Interessi a medio termine, senza nessun respiro progettuale.
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