Incubo tassa sulla casa (e banche senza fondi)

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ROMA — La maledizione dell’Imu non abbandona Enrico Letta. E gli italiani. L’impegno a rivedere la tassazione sulle prime case, preso solennemente dal premier ad aprile nel discorso d’insediamento e irrinunciabile condizione per l’ingresso di Silvio Berlusconi nelle «larghe intese», adesso spinge l’esecutivo a un passo dal tracollo. Sì, perché il decreto legge di cui l’ostruzionismo dei M5S potrebbe impedire la conversione contiene, oltre alla rivalutazione delle quote detenute dalle banche in Banca d’Italia, anche l’ultimo capitolo della telenovela della tassa sulla casa: la mini-Imu.
Si ricorderà che, stabilita la cancellazione della prima rata dell’Imu 2013 a governo appena insediato, la decisione sulla seconda rata è arrivata soltanto con la legge di Stabilità a dicembre. Prima di allora però molti sindaci avevano messo a bilancio l’incasso di quella rata, in alcuni casi imponendo anche una maggiorazione locale: l’aumento dell’aliquota base del 4 per mille fino al 6 per mille. Quando il governo Letta ha rotto gli indugi sulla cancellazione della seconda rata, si è reso conto che rimborsare per intero i Comuni sarebbe costato troppo se si fosse tenuto conto della maggiorazione, così ha deliberato di restituire ai sindaci solo l’importo relativo all’applicazione dell’aliquota base, lasciando ai Comuni la bega di recuperare il resto.
In un secondo momento, per venire incontro agli stessi sindaci, è nata la mini-Imu che ha imposto ai cittadini prima l’onere di capire di cosa si trattasse, e poi quello di pagare entro lo scorso 24 gennaio. Tutto sembrava definitivamente archiviato, ma ora l’eventuale decadenza del decreto cancellerebbe la mini-Imu e farebbe ritornare in vita la seconda rata Imu per intero, imponendo ai cittadini ulteriori calcoli su quanto dovrebbero ancora versare. Insomma un pasticcio cui fino a ieri sera al ministero dell’Economia non si voleva neppure pensare perché considerato irrimediabile. Da via XX settembre si faceva osservare che la reiterazione dei decreti è incostituzionale, che lo stralcio della parte relativa a Bankitalia richiederebbe un emendamento che rimanderebbe la legge a un altro esame, per il quale non c’è tempo. E dunque? Dunque i provvedimenti potrebbero essere trasfusi nella sostanza in un decreto diverso ma l’ipotesi a ieri sera era esclusa: «O passa così o è un incidente grave…».
Lo stesso problema si pone per Banca d’Italia: con la decadenza del decreto salterebbe il riassetto proprietario, definito dopo anni di dibattiti e polemiche. È proprio questo il bersaglio dell’ostruzionismo del M5S, che accusa il governo di voler privatizzare la banca centrale. Il paradosso è che se il provvedimento naufragasse definitivamente, si cadrebbe nella situazione opposta: ritornerebbe in vigore il vecchio articolo della legge sul Risparmio che imponeva tout court la statalizzazione dell’Istituto con il passaggio delle quote dalle banche all’area pubblica. Un articolo che non è stato mai applicato, ed è giudicato inapplicabile, non solo per la bocciatura della Bce, ma anche perché, per dirne solo una, il prezzo ipotizzato per le quote, pur in assenza della definizione di un valore preciso, è ritenuto irrisorio, da esproprio, dalle banche partecipanti al capitale. Senza considerare il problema della ridefinizione di ruoli e poteri.
Se il decreto decadesse, bisognerebbe dunque rifare tutto da capo. Quanto agli effetti concreti, nell’immediato la Banca d’Italia, che ha approvato la revisione del suo statuto e la rivalutazione del capitale rimasto fermo ai 156 mila euro della costituzione nel 1936, dovrebbe riconvocare l’assemblea straordinaria per aggiustare il tiro. Quanto alle banche, vedrebbero sparire la possibilità di rivalutare le proprie quote e con esse rafforzare i rispettivi patrimoni. Questo effetto però non sarebbe immediato, perché secondo le direttive della stessa Banca d’Italia l’operazione non potrebbe calcolarsi a valere sul bilancio 2013, ma solo su quello successivo.
Antonella Baccaro
Stefania Tamburello


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