Il destino delle preferenze: da simbolo di malapolitica a vessillo della democrazia

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ROMA — Tra il 9 giugno 1991 e il 18 aprile 1993, in due distinti referendum, cinquantasei milioni di italiani prima mossero contro il meccanismo delle preferenze, poi si schierarono contro il sistema proporzionale e per l’introduzione del maggioritario. Allora come mai, a oltre venti anni da quella stagione che segnò la fine della Prima repubblica, più della metà dei cittadini vorrebbe un ritorno all’antico? Che ne è stata della battaglia per la «moralizzazione del sistema politico» che ebbe in Mario Segni l’alfiere e ottenne un consenso plebiscitario? Per quale motivo — per usare le parole di Arturo Parisi — «la fiaccola che diede vita alla rivolta contro l’ancienne regime» sembra essersi spenta?
Perché questo dicono i sondaggi. L’ultimo, di Euromedia research, ha rilevato che il 51% degli intervistati chiede espressamente la reintroduzione della preferenza, una quota che si innalza fino al 78% con un dato aggregato. Sebbene gli italiani — come spiega Alessandra Ghisleri — «temano che il voto d’opinione possa essere inquinato dal voto di scambio, e restino in bilico tra la necessità di veder ricreato un rapporto territoriale con il candidato e l’esosità della campagna elettorale». Ma sull’inversione di tendenza non c’è dubbio, quasi che i cittadini si siano sentiti «traditi» dopo aver appoggiato il «cambio» all’inizio degli anni Novanta, con un sostegno senza precedenti: 95,6% di «sì» al primo referendum e 82,7% al secondo.
Così gli italiani risposero all’appello, incuranti dei veti della Dc e dell’invito di Bettino Craxi di «andare al mare» piuttosto che recarsi alle urne. Sostenevano il rinnovamento voluto allora anche da Marco Pannella e Achille Occhetto, «mentre il resto del Pci — ricorda Segni — era piuttosto freddo». Lo s’intuisce dalla ferocia di certi scontri con cui si divisero personalità che formalmente stavano nello stesso fronte, se è vero che il leader radicale — accusando di «tatticismo» Massimo D’Alema — si sentì dare del «caso doloroso», del «guitto» che «beve whisky la mattina». «Alle critiche politiche non si replica con gli insulti personali». Al confronto, la querelle tra Matteo Renzi e Gianni Cuperlo si riduce a battibecco da oratorio.
C’è una certa affinità verbale tra l’attuale leader del Pd e l’ex segretario del Pds, ma ciò che oggi colpisce Parisi — all’epoca nel comitato promotore dei referendum — è la conversione dell’area post comunista che milita nei Democratici. «Preferenzialisti della domenica», li definisce, come a scomunicarli per aver abbracciato il vecchio credo: «Sbaglio, o da Luciano Violante in giù erano quelli che dicevano “tutto fuorché le preferenze”? In fondo, era la dottrina del partito. Il loro». Può darsi abbia ragione l’ex ministro socialista Rino Formica quando dice che si tratta solo di una «questione dei partiti»: «Con le liste bloccate i leader hanno il potere di selezionare i candidati e fucilare i nemici interni».
Ma ciò non basta a spiegare il sentimento degli elettori, e infatti Formica riconosce che se i cittadini vogliono un ritorno alle preferenze è perché «ritengono il loro voto un valore patrimoniale». La tesi evoca la polemica sul voto di scambio, se non fosse che Nando Pagnoncelli — capo di Ipsos — ha svolto di recente un’analisi da cui emerge che, in questi anni di crisi, gli elettori si sono resi conto di non poter più trarre i benefici dai candidati: è finita la stagione della «politica clientelare», è iniziata quella della «politica low cost». E c’è un motivo se nei sondaggi solo il 27% del campione chiede «in subordine» la reintroduzione dei collegi, se Parisi chiede le «primarie regolate per legge». Il punto è che — prima del famigerato Parlamento dei «nominati» — gli elettori si sono sentiti gabbati dal Parlamento dei «paracadutati». Perché con il Mattarellum i trentini si ritrovarono sulla loro scheda dei candidati siciliani, i siciliani dovettero subire l’invasione dei lombardi, e soprattutto nelle regioni rosse i «compagni» emiliani toscani e umbri videro catapultati nel loro territorio i leader dei cespugli che a Roma stavano all’ombra della Quercia.
Ecco perché non regge la vulgata che sia stato solo il Porcellum a far danni. Ecco perché — dopo aver litigato sulle preferenze con Angelino Alfano — Renzi è andato in tv a scaricare la responsabilità del veto su Silvio Berlusconi. Certo, il leader del Nuovo centrodestra è lo stesso che da segretario del Pdl trattava con Pierluigi Bersani per il modello spagnolo. Ma Denis Verdini è impazzito a star dietro alle mille idee del Cavaliere, che sa quanto sia impopolare oggi dire no alle preferenze. Perché questo meccanismo — racconta Pier Ferdinando Casini — «dava ai cittadini il diritto di indignarsi con il rappresentante del proprio collegio. Quando non hanno avuto più un parlamentare con cui sfogarsi, hanno scaricato la disapprovazione votando per l’antipolitica». Ora vogliono riprendersi il potere.
Francesco Verderami


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