Mattanza dei delfini, l’ira dell’ambasciatrice Kennedy

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PECHINO — Hanno messo all’imboccatura della baia un telone incerato, per evitare foto e filmati degli animalisti e dei reporter. Poi la mattanza è cominciata: i pescatori giapponesi avevano legato la coda dei delfini selezionati per impedirne la fuga; poi gli hanno piantato una sbarra di ferro nella spina dorsale e li hanno lasciati dissanguare e soffocare nell’acqua poco profonda fino alla morte. Le carcasse sono state tirate a bordo delle barche: la loro carne sarà venduta e finirà sulle tavole dei giapponesi. Sono finiti così, in un’insenatura di Taiji, nella prefettura occidentale giapponese di Wakayama, 40 delfini di un gruppo di 250 catturati nei giorni scorsi. Altri 52, quelli ritenuti più belli, sono stati venduti a vari acquari e parchi marini del Giappone, il resto liberato. Tra i risparmiati, una rara femmina albina e il suo piccolo.
La caccia ai delfini, in Giappone, si ripete ogni anno, la stagione comincia in autunno e finisce a marzo. Sono circa 600 gli esemplari uccisi da settembre con lo stesso sistema usato ieri a Taiji. La tradizione è stata raccontata nel documentario «The Cove, la baia della vergogna», premiato con un Oscar nel 2010. E ogni anno si levano voci di protesta. L’artista Yoko Ono, vedova del Beatle John Lennon, ha scritto una lettera aperta spiegando che l’uccisione dei delfini dà un’occasione in più per parlare male del Giappone «circondato da molti Paesi potenti che non pensano ad altro se non a indebolirci».
Questa volta è nato un caso diplomatico grave, perché la pratica è stata denunciata anche dalla nuova ambasciatrice americana a Tokyo, Caroline Kennedy. La figlia del presidente Kennedy ha usato Twitter per dirsi «Profondamente preoccupata dalla disumanità della caccia e dell’uccisione dei delfini» e ricordare che il governo degli Stati Uniti si oppone. Al suo fianco si è schierato l’ambasciatore britannico, che ha ricordato «la terribile sofferenza» inflitta ai mammiferi del mare.
Yoshinobu Nisaka, governatore di Wakayama, ha respinto i due interventi critici, sostenendo che «la cultura alimentare varia ed è saggio che le diverse civiltà si rispettino a vicenda». Secondo Nisaka, la caccia ai delfini non è vietata da alcun trattato internazionale e la specie non è tra quelle in pericolo di estinzione. «Ogni giorno vengono abbattute vacche e maiali per la catena alimentare. Sarebbe crudele solo uccidere i delfini? Non ha senso», ha concluso il governatore.
È intervenuto anche il portavoce del governo di Tokyo, anticipando che le autorità esporranno la loro posizione a Washington e diranno che questa forma di caccia è una tradizione culturale. «La realtà è che i 250 delfini erano stati catturati quattro giorni fa e che per questo tempo hanno subito una prigionia traumatica nella baia della morte, cuccioli separati dalle madri prima di essere ammazzati. Alla fine il mare era rosso del loro sangue», ha detto l’attivista Melissa Sehgal di «Sea Shepherd Conservation Society» all’inviato dell’agenzia Reuters . Quel sangue è filtrato attraverso il telone incerato e si è sparso tutto intorno. Il capo dei pescatori di Taiji ha detto che «come la signora ambasciatrice deve sapere, noi viviamo di questa attività».
La faccenda sta virando sull’incomprensione politica tra Stati Uniti e Giappone. L’ambasciatrice Kennedy, arrivata alla fine dell’anno scorso, si è già trovata a dover gestire la crisi internazionale causata dalla visita del primo ministro Shinzo Abe al santuario di Yasukuni, dove sono onorati anche 14 leader politici e militari giapponesi condannati per crimini di guerra nel 1946. «Siamo delusi», aveva detto Caroline Kennedy. Abe ha risposto alle accuse sostenendo di non essere stato compreso, di aver voluto mandare un segnale contro ogni guerra futura. Anche la mattanza dei delfini nella «baia della vergogna» di Taiji, come ha avvertito Yoko Ono, contribuisce a questo clima di incomprensione.
Guido Santevecchi


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