IL PROGRESSO DELLA CIVILTÀ

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 Tolte dalla Siria, devono essere rese innocue e smaltite. Ciò avverrà, sotto il controllo dell’Opac, l’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche, che vanta un Nobel per la pace, in una nave americana specializzata, la Cape Ray. La geopolitica vigente, cioè la Russia, non ammette che il carico sulla nave americana venga effettuato direttamente al porto siriano di Latakia, dunque viene imbarcato su due navi, danese e norvegese, scortate da una fregata, che lo trasbordino. Per fare questo occorre un porto idoneo, benché i container sigillati non siano destinati a sostare ed essere stoccati sulla banchina, e il trasbordo avvenga da nave a nave. L’Italia, geograficamente prossima e civilmente compiaciuta dell’impresa, cui ha devoluto con molti altri paesi un sostegno finanziario, fornisce un suo porto. Ne ha parecchi adatti, che al solo sentore della propria designazione si inalberano: ciascuno di loro dichiara di non voler essere “la pattumiera d’Italia”, come se lo dovessero essere gli altri. Il presidente della Sardegna teme che ne esca ferita l’immagine dell’isola, devastata, l’isola prima e più che l’immagine, da ben altro. Viene designata Gioia Tauro. La Calabria è la pattumiera eccetera? In un certo senso, ma non per questa designazione. Perché della quarantina almeno di navi dei veleni affondate nei mari italiani almeno una metà sta fra Calabria e Sicilia, e per giunta il mare di Crotone è tragicamente inquinato dalla rovina della Pertusola e degli impianti chimici smessi. La polemica di oggi può servire a far riparlare di tutto questo e altro ancora, oltre che della presa della ’ndrangheta. E a far sapere che Gioia Tauro è senza paragone il più importante terminal di trasbordo dei container del Mediterraneo, e il sesto in Italia per il movimento delle merci. E che nonostante il rilievo raggiunto grazie a capienza e pescaggio, bravura dei lavoratori, e posizione, non potrà mai competere alla pari con concorrenti come Marsiglia né trainare lo sviluppo del suo territorio e dell’intera perché il suo entroterra ha infrastrutture risibili: autostrade che si cerca stentatamente di rattoppare, e soprattutto una viabilità di accesso fatta di sconnesse stradine di campagna. E raccordi ferroviari sciagurati, per passeggeri e merci. Gli affari, così, riguardano le grandi compagnie che usano lo scalo, e per la ’ndrangheta. Ma questo è problema annoso. Il trasbordo dei container stagni, dicono i responsabili, prevede gli stessi rischi che si corrono quotidianamente in operazioni equivalenti. Nel corso del 2013 il porto di Gioia Tauro ha movimentato 30 mila tonnellate di sostanze pericolose dello stesso livello attribuito a quelle siriane, che ammontano a 560 tonnellate. Stando così le cose, non si capisce l’allarme e tanto meno il proposito di barricate e blocco del porto. L’allarme
non è peraltro condiviso dagli addetti ai lavori. Caso mai, come dice Silvio Greco, biologo marino di esperienza internazionale e già denunciatore dei malanni e malaffari dei mari di Calabria, si deve guardare più attentamente allo smaltimento finale dei materiali una volta che siano stati trattati. Ciò che dovrebbe avvenire, dopo il trasbordo a Gioia Tauro, sulla Cape Ray, che metterà in funzione le sue “apparecchiature mobili per la distruzione dei materiali mediante idrolisi” una volta raggiunte le acque internazionali. E trasferirà “i residui della distruzione perché possano essere convertiti in sostanze utilizzabili dall’industria”. A questa operazione complessiva partecipa variamente un gran numero di paesi.
Vedo che si è anche rivendicato che il ministro Bonino vada a presenziare al trasbordo: sta diventando un tic. Fossi in lei (anche in me, beninteso) ci andrei. È una soddisfazione assistere da vicino al compiersi di una tappa di progresso civile, anche se è solo un piccolo anticipo di ciò che occorrerebbe al mondo, e più urgentemente al popolo siriano.


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