Un’affannosa corsa a trovare l’intesa tra leader lacerati

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e dunque a dare ragione al premier Enrico Letta, che intravede gli effetti destabilizzanti di una trattativa tesa a scavalcare gli alleati. Il problema è che il Movimento 5 Stelle ha già affossato le proposte renziane attraverso Gianroberto Casaleggio, il cosiddetto guru di Beppe Grillo. E il «sì» di Silvio Berlusconi è legato sia al tipo di riforma che il leader del Pd è in grado di garantirgli, sia alle possibilità di un voto anticipato difficile da ottenere. Oltretutto, non esiste ancora un testo scritto presentato da Renzi, e se si interrompesse la legislatura senza riforma, si andrebbe alle urne col proporzionale: esito paradossale, per lui.
Ieri Verdini ha ricevuto la visita del professor Roberto D’Alimonte, il tecnico renziano dei sistemi elettorali. E oggi il segretario avrà altri incontri, dopo quello di ieri col vicepremier Angelino Alfano. Ma questa girandola, almeno finora, sta facendo aumentare un clima di confusione e affanno. E crescono le perplessità su un successo a breve della mediazione. Tra l’altro, quando si è sparsa la voce che Renzi potrebbe incontrare Berlusconi nella sede del Pd, l’opposizione interna legata all’ex segretario, Pierluigi Bersani, è insorta. La sola idea di vedere entrare al partito il nemico storico della sinistra, «un pregiudicato», come lo definiscono i bersaniani, per siglare un patto storico, risveglia un tabù che la vittoria alle primarie non basta a cancellare.
Il segretario del Pd assicura che vedrà Berlusconi «solo per provare a chiudere» l’accordo. E replica piccato che ad accusarlo sono quanti col Cavaliere «hanno fatto un governo». Peraltro, è difficile dargli torto quando sostiene che «sulle regole discuto ogni giorno anche con Forza Italia», secondo partito italiano. Cambiare legge elettorale nel recinto dell’esecutivo non sarebbe un bel risultato. Il problema è se il compromesso farebbe salvo il governo Letta, o finirebbe per affossarlo e mandare all’aria tutto, favorendo la strategia dello sfascio di Beppe Grillo.
La cosa sorprendente è che il Pd sembra non accorgersi, o curarsi dell’immagine lacerata offerta dai suoi leader di partito e di governo; né del rischio di apparire una forza che scarica sull’Italia i suoi contrasti interni. Renzi ha già messo le mani avanti, scrivendo che se il governo si logora è colpa del premier Enrico Letta, non sua. Ma la tesi non è così pacifica, anzi. Il vicepremier Angelino Alfano chiede di non destabilizzare l’Italia per le «competizioni interne del Pd». E intima al vertice dei Democratici di dire esplicitamente se Letta è davvero il «presidente del Consiglio riconosciuto». Soprattutto, gli avversari interni che fanno capo al presidente Gianni Cuperlo non condividono le accuse quotidiane di immobilismo contro Palazzo Chigi in arrivo dall’entourage di Renzi e da lui personalmente.
Ritengono che questo atteggiamento non pungoli ma logori Letta, così come le sue parole liquidatorie a commento di qualunque ipotesi di rimpasto. E cominciano a pensare che il segretario si stia fidando un po’ troppo di Berlusconi. «Matteo sta aspettando una parola da FI, che non arriva», dicono anonimamente. Il presidente del Consiglio incassa i complimenti del predecessore, Mario Monti, che lo ritiene «il migliore tra i possibili premier nell’Italia di oggi». E sale al Quirinale da Giorgio Napolitano per illustrare «il patto di coalizione», come se intorno al suo governo non volassero veleni e pugnali. Può darsi che alla fine abbia ragione Renzi, e che per magia si chiuda un cerchio virtuoso. Ma se non accade, a logorarsi saranno tutti.


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