La politica del turpiloquio

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 TRA tutte le infamità che ci hanno resi cinici e biechi, per noi italiani è la morte del sole scoprire dalle intercettazioni, questa volta ambientali e illegali, che la ministra più sbarazzina d’Italia non è l’”Affacciate Nunziata” che, nella canzone popolare, «imbrillanta il cielo» di Benevento, ma il boss della Sanità che dispone dei Nas come picciotti. Davvero ascoltare il turpiloquio da taverna di Nunzia De Girolamo è l’assassinio dell’innocenza. E registrare i suoi sms sguaiati— «sei una merda» — è la prova definitiva che la bellezza berlusconiana è stata sempre una menzogna.
La disegni infatti con i baffi di Raffaele Lombardo quando la senti parlare da vero Sopracciò: «Facciamogli capire che un minimo di comando ce l’abbiamo». E penso che a tutto potevano arrivare ma non a rubarci l’illusione che la bellezza sia un antidoto persino alla corruzione. Ci hanno privato anche del risarcimento di pensare che i prepotenti della politica sono brutti e cafoni.
Dunque qui ci confondiamo e non solo ammazziamo definitivamente Lombroso con i suoi mostri in formalina, ma anche quella fisognomica non razzista che è il casting dei caratteri: la bella può essere cattiva ma non becera e zoticona, Nicole Kidman
può uccidere ma non ruttare.
Ecco invece che la nostra ministra, con il suo carré in stile Vergottini, è la strega di Benevento, il maligno sgangherato che si fa civetta ammaliatrice, la versione ‘vajassa’ dell’Amelia di Walt Disney, la fattucchiera trash che affattura puzzette di politica ai piedi del Vesuvio.
Se continui infatti ad ascoltarla e a non guardarla, te la immagini arruffata e ispidamente barbuta come un Sandro Frisullo qualsiasi mentre manda a dire ai frati gestori dell’ospedale che sono «stronzi» e «tirchi a morire» perche non si decidono ad «accelerare » lo scippo del bar del Fatebenefratelli e consegnarne la licenza allo zio e alla cugina di Nunziata, che a questo punto neppure per Claudio Villa sarebbe ancora «boccuccia de cerasa / fragola ‘nzuccherata».
E sbucano da questo immaginario selvaggio i frati che l’hanno accontentata in sprezzo anche delle normative edilizie, e il bar, che non è solo panini e caffé. Manzoni, che nella sua lunga vita non oltrepassò mai Firenze, ci ha un po’ illuso con quel fra Cristoforo che è diventato l’idealtipo del cappuccino. Molti religiosi nel sud sono infatti la finanza della misericordia, il Monte di pietà dei sentimenti. Alla fine degli anni cinquanta i famosi frati di Mazzarino taglieggiarono i contadini e i braccianti: approfittavano del bisogno per trasformare la carità in prepotenza. E oggi ci basta l’esempio delle spoglie di Padre Pio che quelli di Pietralcina volevano lottizzare: il cuore a loro, nel paese dove il santo era nato, e il resto del corpo a San Giovanni Rotondo. E siamo a pochi chilometri da Benvento: i frati «stronzi e tirchi» (Dio mi perdoni e mi assolva con le virgolette) sono quegli stessi che la De Girolamo prega e frega.
E poi c’è appunto il bar dell’ospedale che qui rimanda alla complicità con il lettighiere, al luogo di transito delle compravendite, all’ufficio, al chiosco a forma di carfocio della malasanità. Sono gli ospedali che nel Meridione hanno sostituito le sezioni di partito. Un giro in corsia è più utile di un congresso, perché quando hai perduto tutto, ti rimane ancora da commerciare la tua propria carne. E dunque una tac, un’operazione chirurgica, un ecodoppler sono voto di scambio: l’ultimo, il defintivo.
Più banali sono i dirigenti sanitari come il servizievole Michele Rossi: «Nunzia, non resterò un secondo su quell’Asl se non per te e con te, perché io la nomina l’ho chiesta a te, tu me l’hai data ed è giusto che ci sia un riscontro… «. Ecco: siamo nel «vossia comanda», il patto, la filiazione. Non solo in Sicilia si dice ‘sono cosa sua’; la lingua del sottomesso è universale: «la mia faccia sotto i suoi piedi».
E qui il mio pensiero inquieto corre a Francesco Boccia, il marito (buono) del Pd, il raffinato e sobrio professore di economia. In fondo questo matrimonio destra- sinistra ha rappresentato il focolare delle larghe intese, l’eleganza dell’amore che è il contrario dell’inciucio. Ebbene, Boccia usa i tappi per le orecchie oppure ama in casa quel che disprezza in Parlamento?
Difatti la De Girolamo intervistata da Fabrizio Roncone sul Corriere si è difesa così: «Vabbe’, ho usato parole non esattamete consone ad una signora di classe? Quanto perbenismo. Stavo a casa mia. Potrò parlare come mi pare a casa mia, si o no?». Io avrei risposto di sì, ma anche di no. E non tanto perché il Parlamento e la strada sono la vera casa dell’uomo pubblico (anche se nel-l’Italia mascalzona suona un po’ retorico) ma perché la signora, «proprio mente – ha detto senza vergogna – allattavano mia figlia », faceva della cucina di casa il nascondiglio segreto della vera politica: è li che la sanità pubblica, celebrata in Parlamento, veniva degradata a strumento di ricatto e di dominio. Dice: «Preferisco darlo a uno del Pd, ché ci vado a chiedere cento voti». Tratta come «roba» sua un ufficio territoriale dell’Asl, vale a dire un presidio di sanità pubblica. E la amministra in casa, non perché somiglia a mastro don Gesualdo, ma perché è uguale alla protagonista di ‘Napoli milionaria’, «donna piacente di 38 anni» che tratta e baratta «col tono di chi non ammette replica» e, scrive ancora Eduardo, «solleva il materasso dal letto matrimoniale e prende un pacco legato con lo spago» perché si vergogna a fare in pubblico «il suo mercato nero ». Ecco, non è il luogo di posta e di ristoro che nessuno ha il diritto di violare: qui la casa è una caverna, il covo di uno sguaiato summit, non vita privata ma privatizzazione della vita altrui.
Esistono dunque due De Girolamo: quella sboccata che in casa parla senza — dice — «perbenismo », e quella educata, schietta e per bene fuori casa: vizi privati e pubbliche virtù. Forse è più vera la ministra che si mise in posa per «Chi?», vestita da contadina, con gli stivaloni e il rastrello in mano sotto lo slogan: «fare l’agricoltore deve diventare figo». O forse è più autentica la signora di casa che ha mandato orribili maledizioni a Mastella, il quale si era permesso di ricordare che «per molto meno» lui e la moglie persero il posto e la reputazione. Guardate quanto è agghiacciante questa frase con i tre punti esclamativi che sembrano coltelli e quanto sono da malacarne le oscure allusioni ai guai del figlio di Mastella: «Sei una merda. Mi stupisce che uno che è padre e che ha avuto così tanti problemi con il figlio possa dire quelle cose… Dio esiste e non sarà clemente con te!!!».
E va sottolineato che Mastella gestiva allora la stessa sanità di Benevento con criteri padronali solo apparentemente simili. Con tutti i clienti, le poltrone, il familismo e la paccottiglia del suo meridionalismo, Mastella faceva scienza politica del pittoresco italiano, la sua Ceppaloni era infatti il cenacolo che radunava, attorno alla famosa piscina a conchiglia, tutto il «made in Italy» (altra orribile espressione del provincialismo vestito di tutto punto). La De Girolamo non ha strappato quel territorio a De Mita né a Mastella conquistandolo porta a porta. Lo ha ricevuto in dono da Arcore. Pur essendo di Benevento non è stata scelta da Benevento, ma nominata da Berlusconi. Non beneficia i suoi clientes ma li frusta, non li serve ma se ne serve, a riprova che il Porcellum non è solo pasticcio elettorale ma è la degradazione del degradato, fa di ogni pezzo di terra una periferia, sottrae a un territorio già sottosviluppato la sua ultima sovranità, il suo povero campanile.
La De Girolamo non è indagata e noi non siamo di quelli che «in galera ti mando», e però le sue balbettate scuse sul linguaggio sboccato sono un ‘peggio mi sento’. Se ci pensate bene qui la cosa più pulita è il turpiloquio.


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