La trincea generazionale

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Quella mira ambiziosa a un sussidio di disoccupazione davvero “universale” rende ineludibili scelte dirompenti.

Non a caso la prima bozza del Jobs Act lambisce il nervo scoperto della cassa integrazione, rinunciando però a un’incisione che risulterebbe traumatica. L’escamotage è che i cassintegrati, almeno formalmente, non rientrano fra chi ha già perso il lavoro. E però si calcola siano già trecentomila i cassintegrati “in deroga”; cioè dipendenti di aziende di fatto chiuse, i quali percepiscono un reddito a carico dello Stato, anziché finanziato (come prevede la Cig ordinaria e straordinaria) da imprese e maestranze. Il governo ha fatto ricorso a provvedimenti tampone per reperire le risorse necessarie a non lasciare i “derogati” in mezzo a una strada come gli “esodati”. È stata proprio la coperta troppo corta che ha indotto Letta a rinunciare alla preannunciata sperimentazione di forme anche solo parziali di “sostegno per inclusione attiva” o “reddito minimo di inserimento”, in tutto simili all’assegno universale proposto da Renzi.
Tale assegno universale per chi perde il lavoro non può realisticamente essere sovrapposto agli ammortizzatori sociali vigenti senza modificarli. Pena un aggravio di spesa che al momento appare insostenibile. Ma i sindacati che pure offrono un’apertura di credito notevole al Jobs Act renziano, dalla Fiom di Landini alla Cisl di Bonanni, restano comprensibilmente ostili al riassetto complessivo del welfare. Tutelano gli interessi di centinaia di migliaia di cassintegrati che, percependo un misero assegno mensile, di certo non si sentono “superprotetti” come vorrebbero liquidarli con faciloneria gli estremisti della flessibilità. Molti derogati risultano di fatto incollocabili. E poiché oggi le risorse destinate alla Cig in deroga appaiono insufficienti a coprire anche solo l’anno in corso, rischia di profilarsi per loro lo stesso destino infausto degli esodati.
L’Inps ha segnalato nel 2013 un crollo (— 22,93%) del ricorso alla Cig in deroga. Lungi dal rappresentare una buona
notizia, un decremento così brusco è conseguenza degli ostacoli che incontra il finanziamento di questo sussidio pubblico. Perciò le aziende ci rinunciano e ricorrono direttamente ai licenziamenti. Conseguenza ulteriore: si registra un’impennata a quota 2 milioni (+32,5%) delle domande di indennità di disoccupazione. Meno Cig in deroga equivale a più disoccupati. Qualcuno potrà cinicamente considerarlo un fattore di chiarezza, ma è prima di tutto un dramma sociale. Si ripropone così, più acuto di prima, il dilemma iniziale. Visto che il ciclo economico non offre spiragli di ripresa occupazionale; visto che le risorse sono limitate: chi aiutare per primo? L’ideale dell’assegno universale per chi perde il lavoro, deve o non deve contemplare deroghe? Renzi e il Pd non possono certo permettersi la posizione frontalmente antisindacale di Beppe Grillo: reddito minimo di cittadinanza che subentra alla cassa integrazione e la sopprime. Finanziandosi peraltro con un gettito imprecisato. Va mantenuta, al contrario,
una scala di priorità? I dipendenti in età matura, padri di famiglia che restano aggrappati con l’esile filo della Cig in deroga alle loro aziende in crisi, devono mantenere questo ben misero “privilegio” di tutela? O al contrario esso va reciso, pur di spalmare su una platea più vasta i fondi disponibili?
Per quanto innegabile resti il peso di convenienze politiche e sindacali, bisogna riconoscere che la resistenza diffusa a sinistra, almeno fino a ieri, contro l’idea dell’assegno universale affonda in una preoccupazione ragionevole: il timore, cioè, che spezzare per legge il vincolo tra cassintegrati e aziende in crisi faciliti lo smantellamento del nostro sistema produttivo.
Il Jobs Act di Renzi per il momento si limita a definire un’impostazione generale, senza sciogliere questi nodi. Ha il merito di porre la questione del lavoro al centro dell’azione del Pd, procurandogli aperture di credito preziose in Italia e in Europa e rinviando il momento delle inevitabili lacerazioni. Il suo respiro strategico lo configura come programma di legislatura. Più adatto a ispirare una campagna elettorale che a indicare il piano d’azione di un governo a termine.


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